sabato 26 settembre 2015

Repubblica 25.9.15
I transfughi
“Traditori, venduti per una poltrona” il grande fuggi fuggi da Forza Italia sul carro vincente
L’emorragia di parlamentari berlusconiani verso Verdini riapre il capitolo del trasformismo: fino ad oggi 308 cambi di casacca
di Sebastiano Messina


Aleggia il fantasma di De Gregorio ma nessuno parla di giri di denaro, piuttosto di promesse di posti di sottogoverno Il centrosinistra respinge le accuse anche perché, dopo l’intesa con la minoranza, oggi Renzi non ha bisogno di aiuti esterni

ROMA «Ecco un altro traditore» mormora un fedelissimo berlusconiano mentre un senatore siciliano attraversa velocemente il salone Garibaldi. È uno degli otto che hanno appena detto addio a Forza Italia per seguire Denis Verdini, il più renziano dei berlusconiani (o il più berlusconiano dei renziani, a seconda dei punti di vista).
Il velocissimo e assai tempestivo trasloco di quei dieci parlamentari – otto al Senato e due alla Camera, proprio nel pieno delle votazioni sulla riforma costituzionale – dal sempre meno folto gruppo forzista alla crescente pattuglia verdiniana ha reso incandescente il clima tra le macerie del fu centrodestra, con il capogruppo Romani che parla apertamente di «campagna acquisti ai limiti del lecito », appellandosi a Mattarella perché la fermi, il governatore della Liguria Giovanni Toti che lascia su Twitter l’hastag ironico “#soapoperatransfughi” e Gasparri che tuona in aula contro il suo ex fedelissimo Francesco Amoruso – neo-verdiniano – accusandolo di «un comportamento miserevole», mentre i grillini annunciano di voler andare alla Procura della Repubblica per «denunciare la compravendita di voti».
Si sente, insomma, l’eco di quello che accadde otto anni fa, quando il senatore napoletano Sergio De Gregorio intascò due milioni di euro per far cadere il governo Prodi. E anche se nessuno oggi parla esplicitamente di giri di denaro, alludendo invece a poltrone, poltroncine o strapuntini nel sottogoverno che sarebbero stati promessi ai transfughi, nel centrosinistra l’accusa brucia.
Tanto più che, conti alla mano, se l’accordo con la minoranza tiene, Renzi oggi non ha bisogno di aiuti esterni per far passare la riforma costituzionale. Chi ha fatto i calcoli assicura che oggi il governo può contare su oltre 170 voti a Palazzo Madama: con i 13 voti dei verdiniani supererebbe persino quota 183, il tetto raggiunto quando Forza Italia votò la prima stesura della riforma.
Eppure, col passare delle ore la migrazione berlusconiana verso la rassicurante sponda del gruppo Ala sembra diventare sempre più folta, e sempre più impetuosa. Adesso gli occhi sono puntati su otto senatori sui quali si sussurra che Verdini abbia messo gli occhi, oltre ai due deputati siciliani (uno è l’agrigentino Riccardo Gallo Afflitto) che la prossima settimana dovrebbero ufficializzare l’addio a Forza Italia.
Su quegli otto senatori si è già concentrato un serrato corteggiamento. C’è il lodigiano Sante Zuffada, che si schermisce («Oggi sono qui, quale sia il futuro nessuno lo sa…»), c’è Franco Cardiello che nega decisamente («Sono abituato a mangiare pane e coerenza, non abbandono Berlusconi»), ci sono l’ex sindaco di Roma Franco Carraro, l’inquieto Francesco Nitto Palma, l’imprenditore Bernabò Bocca, l’ex piddino Riccardo Villari e, infine, l’ex fittiano Michele Boccardi, senatore da appena 15 giorni al posto dello scomparso Donato Bruno.
Cederanno? Resisteranno? Temporeggeranno? Ormai nessuno si meraviglia più di nulla, in questo Parlamento che ha stracciato ogni record di trasformismo, con 144 cambi di casacca a Montecitorio e addirittura 164 a Palazzo Madama: più della metà dei senatori non sta più nel partito che lo ha eletto, anzi nominato.
Il gruppo che ha subìto l’emorragia più violenta (un flusso che sembra inarrestabile, ormai) è quello berlusconiano, che in due anni e mezzo ha perso per strada 83 parlamentari (35 deputati, tra i quali spicca il nome di Angelino Alfano, e 48 senatori, compresi gli ex “fedelissimi” Verdini, Schifani, Bonaiuti e Bondi), ovvero più del 40 per cento dei seggi conquistati nel 2013.
Ma anche i Cinquestelle si sono ristretti, da allora ad oggi, e tra dimissioni ed espulsioni oggi contano 36 parlamentari in meno, 18 al Senato e 18 alla Camera (erano partiti da 163).
In proporzione, è stata più dura la perdita subìta da Sel, che ha visto passare ad altri gruppi 14 dei suoi 37 deputati, a cominciare dall’ex capogruppo Gennaro Migliore che si è trasferito nel Pd, come altri dieci compagni di partito. E non solo loro: le file del partito di Renzi si sono ingrossate di 37 parlamentari, al netto degli addii più sofferti come quelli di Fassina e di Civati, e così oggi il principale partito di governo può contare su 11 senatori e 26 deputati in più rispetto ai 396 conquistati nelle urne.
Tutto questo grazie a un movimentatissimo viavai di deputati e senatori – 308 trasferimenti di gruppo - che ha superato di gran lunga il record della precedente legislatura (quella di Berlusconi e Monti) nella quale cambiarono casacca 261 parlamentari. E siamo ancora a metà del percorso.
Una migrazione tumultuosa ma non tanto caotica – nel Paese dove tutti accorrono in soccorso del vincitore – che ha avuto il suo picco massimo durante il governo Letta, quando la scissione degli alfaniani fece alzare la media dei tradimenti a uno ogni due giorni (al tempo di Berlusconi ce n’era uno la settimana).
Protagonisti, oggi come allora, i transfughi, i fuoriusciti, i migranti del Palazzo. Una volta gli onorevoli colleghi li chiamavano voltagabbana, poi hanno smesso perché si sono resi conto di essere circondati: in due anni mezzo, dal voto del 2013 a oggi, ha cambiato casacca un parlamentare su quattro.
Se fosse un campionato, in vetta alla classifica ci sarebbe un ex liberale (ed ex centrista, ed ex berlusconiano), il napoletano Luigi Compagna, che il suo quarto mandato parlamentare l’ha conquistato nel 2013 con una lista del Pdl. Appena arrivato, s’era iscritto al Misto, per guardarsi intorno. Dopo cinque giorni ha aderito a Gal (Grandi Autonomie e Libertà). Passati otto mesi ha deciso che il suo posto era nel Nuovo Centrodestra, dove però è rimasto quattro giorni appena («Il tempo di votare la fiducia al governo Letta »). Quindi, compiuta l’operazione, è rientrato per undici giorni tra i banchi dei vecchi colleghi di Gal, ma l’inquietudine se lo mangiava vivo. E così alla fine è tornato nel Nuovo Centrodestra. Dove siede tuttora. Provvisoriamente, si capisce.