martedì 22 settembre 2015

Repubblica 22.9.15
L’ultimo giallo dell’ Ira
Dietro alle dimissioni del premier nord-irlandese Peter Robinson c’è “la morte di un assassino” un uomo dell’Irish Republican Army
Perché, anche se gli accordi del 1996 hanno messo fine alla guerra intestina tra cattolici indipendentisti e protestanti unionisti, non tutti i combattenti dell’esercito clandestino hanno deposto le armi
di Enrico Franceschini


Un ex killer, McGuigan, sta in carcere dieci anni Quando ne esce è stata siglata la tregua Il “compagno” in libertà uccide il suo superiore ma viene fatto fuori a sua volta per vendetta I due omicidi hanno portato alla caduta del governo e allo spettro di nuove elezioni di agosto in cui è stato assassinato, Kevin McGuigan non pensava di diventare il fantasma della guerra civile nord-irlandese. I colpi di pistola che lo hanno steso a faccia in giù davanti alla porta di casa sotto gli occhi di sua moglie, invece, sono stati la miccia che un mese dopo ha provocato le dimissioni del premier Peter Robinson, la caduta del governo autonomo regionale e la paura che l’Irlanda del Nord precipiti di nuovo verso il conflitto che l’ha insanguinata per trent’anni. Può sembrare assurdo che un singolo fatto di sangue scateni una crisi simile. Appare più comprensibile se si fruga dietro la “morte di un assassino”, come l’ha ribattezzata il Guardian . Perché anche McGuigan era un killer. Convinto che nessuno sapesse uccidere meglio di lui. E che nessuno sarebbe mai stato capace di ammazzarlo.
Come nei romanzi, occorre fare un passo indietro. Molto indietro: fino al 1986, all’era dei Troubles, i Problemi, i Guai, l’eufemismo con cui da queste parti chiamano la guerra intestina tra cattolici indipendentisti, che lottavano per la riunificazione con il resto dell’isola ovvero con l’Irlanda repubblicana, e protestanti unionisti, determinati a mantenere la regione nel Regno Unito: una guerra, non c’è altro modo di definirla, che ha fatto 2mila morti e migliaia di feriti fino agli accordi di pace firmati nel 1996 con la mediazione dei governi di Londra e di Dublino.
E dunque torniamo indietro. All’11 luglio 1986. Legato, bendato, con la mascella rotta dalle botte che ha preso, un soldato britannico sta aspettando di morire nella casupola del quartiere cattolico di Belfast dove due combattenti dell’Irish Republican Army, l’esercito clandestino cattolico e repubblicano, più noto con l’acronimo di Ira, lo hanno portato dopo averlo fatto prigioniero. Due uomini in tuta da ginnastica corrono lungo la strada: apparentemente fanno il loro jogging quotidiano, ma arrivati davanti alla casa ne sfondano la porta con un calcio, liberano il soldato e iniziano la caccia ai suoi rapitori. Mezz’ora più tardi un commando delle Special Air Services, più conosciute come Sas, le leggendarie teste di cuoio delle forze armate britanniche, cattura i due guerriglieri dell’Ira. Uno, poco più che ventenne, è Mc-Guigan.
Viene rinchiuso al Maze, la prigione di Belfast tristemente famosa perché vi venivano tenuti gli uomini dell’Ira. Resta in cercare un decennio. Quando esce, in Irlanda del Nord è scoppiata la pace. L’Ira ha dichiarato il cessate il fuoco. Ma non ha ancora del tutto deposto le armi. I gruppi armati clandestini protestanti sono ancora attivi. La guerra potrebbe ricominciare. Né è chiaro come si comporteranno polizia ed esercito. Per tenere occupati i suoi combattenti, l’Ira assegna loro un nuovo compito: combattere trafficanti di droga nella zona cattolica.
McGuigan viene selezionato per una unità speciale che deve assassinarli. Il suo diretto superiore si chiama Gerard Davison, un altro ex-combattente dell’Ira. Sulla carta sono amici. Poco per volta nasce una rivalità. Fatta anche di vittime, spacconeria, ferocia. Insieme o separati, uccidono una dozzina di narcotrafficanti. McGuigan è il più temerario: una volta entra in un pub frequentato da spacciatori con parrucca e baffi finti per non farsi riconoscere, apre il fuoco verso il soffitto per far scappare tutti fuori, afferra il suo bersaglio, un trafficante di 24 anni, e gli scarica 16 colpi in corpo.
Il suo carattere impulsivo e violento gli crea nemici anche dentro l’Ira. Un suo attacco contro la famiglia di un militante del gruppo viene giudicato inopportuno. Il tribunale segreto dell’organizzazione lo condanna perciò a un “six pack”, un pacco da sei: nel gergo di Belfast significa sei proiettili, sei ferite, ai piedi, alle mani, alle ginocchia. McGuigan subisce la punizione senza protestare ma la ritiene ingiusta. Umiliante. Pensa che ad averla ordinata sia stato proprio il suo superiore, compagno di esecuzioni e rivale nella caccia agli spacciatori: Davison. Cova un sordo rancore per dieci anni, aspettando il momento per vendicarsi.
Nel maggio scorso crede che sia venuto. È un piovoso martedì mattina. Davison esce di casa, non fa in tempo ad arrivare all’auto, una figura incappucciata lo raggiunge alle spalle e lo uccide con due pallottole alla nuca. Occhio per occhio, dente per dente: come insegna la Bibbia. I sospetti della comunità si centrano subito su McGuigan. Lui nega. Smentisce perfino con un comunicato pubblico, attraverso il suo avvocato. «Sono cambiato», afFerma. «Ho 53 anni. Ho nove figli. Non sono un assassino ». Sottinteso per chi lo conosce: non sono “più” un assassino. Un messaggio rivolto ai suoi compagni dell’Ira, più che alle forze dell’ordine che indagano sull’omicidio di Davison. La polizia non ha prove. Ma indaga anche l’Ira — o quel che ne resta, quasi vent’anni dopo gli accordi di pace, e le prove saltano fuori. Nel corso dell’estate, per ben tre volte, le autorità di Belfast avvertono McGuigan che la sua vita è in pericolo. Kevin non ci bada. Si sente intoccabile. E comunque in grado di sapersi difendere. Fino alle 9 di sera di mercoledì 12 agosto. Sta uscendo dal garage di casa in macchina, con la moglie al fianco, quando i killer gli arrivano addosso sparando. Riesce ad aprire lo sportello, rotola fuori, fa qualche passo, inciampa, cade a terra. I killer gli sono sopra per il colpo di grazia. La moglie assiste impietrita. Poi gli assassini si dileguano.
Dice Ed Moloney, un esperto della guerra civile in Irlanda del Nord: «Non ci sono dubbi che l’azione sia stata ordinata dalla leadership dell’Ira. Se fosse stato un vendicatore isolato ad agire, l’Ira gliela avrebbe fatta pagare. L’uso non autorizzato delle armi, specialmente in un controverso omicidio politico, sarebbe stato punito con una condanna a morte. Qui niente accade senza l’autorizzazione dell’Ira ». Nei giorni successivi la polizia arresta tre dirigenti dello Sinn Fein, il partito cattolico, di fatto per tanti anni il braccio politico dell’Ira, accusandoli dell’omicidio di McGuigan. E a questo punto il primo ministro del governo autonomo congiunto nord-irlandese, Peter Robinson, leader del maggiore partito protestante unionista, chiede lo scioglimento del parlamento di Belfast. «Se lo Sinn Fein esegue omicidi nella strade, non possiamo continuare a governare con loro», dice Robinson. Poi dà le dimissioni, provocando la caduta del governo congiunto. Lo spettro di nuove elezioni. La fine della collaborazione fra cattolici e protestanti. Il timore che la guerra possa ricominciare. I tre indiziati vengono poi rilasciati: non ci sono prove, come al solito. «I protestanti vogliono strumentalizzare un fatto di sangue per fini politici », accusa tuttavia Gerry Adams, leader del partito cattolico. Cioè per vincere voti in un’elezione anticipata o addirittura spingere Londra a riprendere il controllo dell’Irlanda del Nord. Dove i protestanti erano sempre stati la maggioranza della popolazione, mentre ora i cattolici fanno più figli, sono già la maggioranza a Belfast, presto potrebbero diventarlo in tutta la regione. Sarebbe questa la vera ragione che ha spinto alle dimissioni Robinson, ieri colpito da un infarto e ricoverato in ospedale. Ma intanto la morte di un assassino ha risvegliato vecchi fantasmi. Quel mercoledì di agosto, Kevin Mc-Guigan non se lo sarebbe potuto immaginare.