martedì 22 settembre 2015

Repubblica 22.9.15
A caccia di parole tra Leopardi e Rilke
di Nadia Fusini


L’”io” che intraprende l’avventura che qui si racconta è non un “io” psicologico; lo sviluppo della personalità che qui si disegna già da tempo procede su questa strada di una conoscenza che è al tempo stesso co-nascenza, ovvero nasce nel momento stesso in cui conosce; da Incontro con Io a Il Labirinto ,
L’uomo che non credeva in Dio , Per l’alto mare aperto , Scuote l’anima mia Eros , L’amore la sfida il destino , il cammino di chi scrive muove verso il governo di sé nell’”Aperto” del mondo. Secondo l’espressione di un poeta molto amato dall’autore, Rilke.
Conosciamo la definizione aristotelica dell’eroe dell’azione drammatica: è un uomo pieno di qualità ammirevoli, oltre che di alcuni difetti tragici che provocano la caduta finale, per narcisismo o arroganza. Ma è un’altra quella che ne darà Keats, leggendo Shakespeare: l’eroe è la personalità che dalla stanza buia del pensiero-fanciullo, e dunque dall’innocenza e dall’ignoranza muove verso la maturità della conoscenza di sé, e nel tragitto procede verso il “fare-anima”. È grazie a questo sviluppo che si dà la realizzazione di una personalità veramente “umana”. Creativo è l’“io” che pensa e agisce in una prospettiva universale, secondo il sentimento umanissimo di chi sente di “valere” in quanto appartiene a un tutto che eccede i limiti dell’individualità. E se ha “cura di sé”, tanto da voler scrivere i propri pensieri, è perché questo “io” pensa alla vita come a un’ascesi. Non intendo la parola nel senso religioso, ma nel senso dell’etimo greco – come quell’esercizio volto a coltivare in sé il vero bene, accettando il destino che la ragione cosmica ci impone.
La scrittura diventa a questo punto centrale, una specie di occhio “al posto dell’occhio altrui”, come diceva il monaco Antonio, che raccomandava ai discepoli di annotare per iscritto le azioni e i moti dell’anima – perché questo sono i pensieri: moti dell’anima, azioni della mente. E se tra gli appunti “spirituali” di Scalfari compaiono parole altrui, che trascrive – versi di Leopardi, di Villon, citazioni da Diderot – è perché il suo pensiero se ne nutre. Scalfari rianima così quel genere letterario caro all’antichità che sono gli hypomnemata , o taccuini di appunti già in uso ai tempi di Platone presso studenti dell’esperienza del sé.
Addirittura compare un inizio di racconto cui lo ispira la lettura dell’ode a Euridice di Rilke, che con geniale interruzione alla Tristram Shandy interrompe. Se lo fa è perché si rende conto che in altri testi ha già scritto del rapporto tra dolore e ragione, di come questi sentimenti si intreccino nel legame d’amore tra un uomo e una donna. Vi torna anche qui, dove con rara purezza racconta di quale amore abbia amato due donne “rivali” che per amore di lui divennero “amiche”. Scalfari ammira le donne perché ha avuto una madre che ha amato, e dentro di sé custodisce come quella parte femminile che si esprime nella tenerezza con cui accoglie la vita. Del resto, l’individuo non potrà forgiare la propria identità spirituale disconoscendo in sé il femminile.
Eclettismo? In realtà, c’è una profonda coerenza in questa scrittura. Scalfari legge, ascolta, ricorda; non riverisce l’autorità del passato, rende vivo il presente. E ci rammenta che chi perde memoria, avanzerà stordito in un deficit di pensiero, che in tempi non lontani già sappiamo quel che ha prodotto. Noi siamo immersi nel mondo, ma la percezione utilitaria che ne abbiamo, spesso ci nasconde il mondo in quanto mondo. Perciò un certo spostamento dell’attenzione è necessario per una percezione più piena della realtà. È ciò che accade in queste pagine. È in atto una metanoia, una conversione che ha la potenza dell’”ultimo sguardo”. E l’apertura della “prima volta”.
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Già nelle prime pagine del suo nuovo libro Eugenio Scalfari ci offre la chiave di lettura: L’allegria, il pianto, la vita è uno zibaldone. Una mescolanza di annotazioni le più diverse per tono, misura, ispirazione, che della forma leopardiana del diario riprendono l’irregolarità e la discontinuità di una scrittura in progress, volubile nel registro espressivo, dove a una prosa asciutta si alternano rime di intensità e lunghezza diversa. Ma se per Leopardi tale scrittura si estende negli anni, in questo caso il primo appunto risale al gennaio dell’anno appena passato, l’ultimo al mese di maggio dell’anno presente.
E chi scrive è un uomo che si dice in prossimità della “fine del viaggio”, proprio da tale prossimità mosso a tornare alla “scintilla di caos” che c’è dentro ognuno di noi: la scintilla che spinge alle domande essenziali sulla natura delle cose, sul bene e sul male, sulla società e sulla civiltà e sulla memoria. Scalfari reinventa così la forma dello Zibaldone: lo tramanda e ne rovescia in certo senso la prospettiva, trattenendone però la caratteristica fondamentale, che un profondo conoscitore di Leopardi, Claudio Colaiacomo, anni fa definiva nel segno «di una volontà di integrale letterarizzazione dell’esistenza».
«Il fatto di oggi è la decisione di scrivere il mio diario», annuncia l’autore. «Ma non sarà un diario di accadimenti specifici. Sarà un diario che registra i mutamenti che avvengono dentro di me a causa di quanto avviene nella realtà che mi circonda». In altre parole, delle varie maschere che ha indossato nella sua lunga vita Scalfari sceglie ora quella che mette a nudo una volontà di potenza tutta rivolta a dare spazio alla parola; si fa tutto e interamente scrittore. E si vuole poeta – quasi che della scrittura, la poesia esprimesse l’essenza. Un gesto che insegna, naturalmente a chi voglia capire, che la conoscenza vale più di ogni altro potere. E per conoscenza si dovrà intendere socraticamente la conoscenza di sé.
Non a caso, apre la geografia mentale del libro una poesia intitolata Sorgenti sorgenti sorgenti : c’è un nord, il passato, e c’è un volume di energie che scendono verso il sud del futuro, dove il sole tramonta, ma «inghirlandato di fiori”. Il tramonto non sembra fare paura a chi scrive quei versi, e difatti subito dopo precisa: sì, sono alla fine del viaggio, e m’è venuta voglia di scrivere questo libro nella forma libera del diario, e questa voglia di libertà m’è venuta proprio perché non penso affatto la fine del viaggio come una morte, ma come una trasformazione.
La memoria è l’essenza stessa della vita psichica, e il passato la cosa più viva che vive in noi, la magia che fa resuscitare chi non è più... Ed ecco che subito compaiono il padre e la madre dello scrittore, mantenuti dal ricordo in una specie di vita oltre la vita, custodi dentro di lui di un passato di affetti e di rappresentazioni di sé profonde e tenere. Cui leopardianamente la lontananza aggiunge fascino.
Ecco il privilegio del dolore, la potenza delle lacrime che Scalfari descrive, ed ecco altre percezioni, letture, incontri che lasciano un segno indelebile nel ricordo. Il diario descrive puntualmente l’atletica affettiva che muove la mente e la configura nella sua unicità. Chi scrive proclama il proprio amore per la verità e lo esercita come una pratica. A dimostrazione che per vivere l’uomo deve umanizzare il mondo, e cioè trasformarlo nella concretezza di un pensiero che si fa scrittura. Non a caso segnano l’entrata nella quête del libro i nomi di Montaigne e di Rousseau.