giovedì 24 settembre 2015


La Stampa 24.9.15
Accordo fatto
Speranza: ora avete visto che la minoranza non voleva far cadere questo governo
intervista di Carlo Bertini

Accordo fatto, tutti contenti nel Pd. Speranza, reggerà la tregua?
«Partiamo dall’accordo. Che è molto positivo perché così è più solida la riforma e perché si è riuscito a riunire il Pd. Su un tema molto rilevante come l’elettività dei senatori. È caduto un muro. Fino a pochi giorni fa Renzi e company ci dicevano che era impossibile, oggi invece si accetta che i senatori siano scelti dai cittadini».
Insomma è valsa la pena far ballare il governo per tutta l’estate.
«Si è dimostrato che il nostro scopo non era abbattere Renzi. Appena lui ha aperto per migliorare la riforma, nessuno ha avuto problemi a dire si: e oggi tutti insieme lavoriamo per fare andare avanti il governo. Dunque chi diceva che il nostro scopo era farlo cadere, diceva una enorme falsità smentita da quanto avvenuto nelle ultime ore».
I maligni dicono che avete accettato il compromesso perché con i voti di Verdini la riforma sarebbe passata lo stesso e voi sareste risultati ininfluenti.
«Le battaglie delle idee, specie sulla costituzione si fanno a prescindere dalle convenienze di corrente. Se si ritiene giusta la si fa e basta. Certo oggi è importante che il Pd sia di nuovo unito e che i voti dei trasformisti della destra siano ininfluenti».
Ma il vostro obiettivo è strappare a Renzi una gestione unitaria del partito? Condizionare ogni decisione?
«Renzi è il segretario e gestisce il partito, ma in troppi passaggi, scuola e Jobs Act ad esempio, lo ha portato in una direzione lontana dal sentire comune di un pezzo della nostra gente. Quindi non chiediamo niente di simile, non ci sono le condizioni. Vogliamo cercare di evitare che Renzi porti il Pd lontano dalla sua storia e dalla sua vocazione originaria. Lui è il segretario, tocca a lui tenerlo unito».
Ora sposterete il tiro sulla legge di stabilità?
«Il prossimo fronte per l’unità del Pd sarà quello. Quando decidi dove metter le risorse, esprimi la tua cultura politica. E quindi gli interventi sull’economia sono decisivi. Fare parti uguali tra diseguali è la più grande ingiustizia, diceva don Milani. Non è giusto che un miliardario non paghi la tassa sulla prima casa al pari di chi non arriva a fine mese. Se Renzi vorrà ancora ottenere l’unità del Pd chiedo: da dove si prendono i soldi per abbassare le tasse, combattendo l’evasione o riducendo sanità e servizi sociali? Ci sono le risorse per pagare gli esodati e per una misura universale contro la povertà?».

il manifesto 24.9.15
Lo sterminio della fu minoranza
di Massimo Villone

Alla fine, con gli emendamenti Finocchiaro alla riforma costituzionale, scoppiò la pace, accompagnata da vistose manifestazioni di giubilo. A dire il vero, non si capisce di cosa gioisca la fu minoranza Pd. Per la elezione popolare diretta dei senatori, che aveva assunto come bandiera, ha perso su tutta la linea.
Il testo conclusivamente concordato conferma anzitutto che i senatori sono eletti dagli «organi delle istituzioni territoriali». Quindi non dai cittadini. Si rincara poi la dose aggiungendo «in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi …». E qui l’ambiguità raggiunge vertici ineguagliati.
Si consideri il concetto di conformità. Qualunque sia il significato che si vuole riconoscere alla parola, di sicuro non può intendersi come «esattamente coincidente con». Se così fosse, infatti, il potere di eleggere i senatori che la norma attribuisce alla assemblea territoriale sarebbe una scatola vuota, una inutile superfetazione. L’unica lettura possibile è che l’assemblea territoriale possa allontanarsi, in più o meno larga misura, dalla volontà degli elettori.
In ogni caso, quali sono le scelte degli elettori rispetto alle quali bisogna osservare la conformità? Dice la norma: quelle espresse per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo degli organi di cui fanno parte. Quindi, l’elettore non vota Tizio, Caio o Sempronio per il senato, decidendo l’esito. Vota per il consigliere. Chi poi acceda al seggio senatoriale dipenderà dalla lettura data alla «conformità». Inoltre, come ho già scritto su queste pagine, basterà una rosa più ampia del numero di senatori da eleggere per azzerare ogni necessaria corrispondenza tra la volontà popolare e i senatori conclusivamente eletti.
Cosa ha a che fare tutto questo con l’elezione popolare diretta dei senatori? Ovviamente, nulla. L’emendamento concordato se ne allontana persino di più di soluzioni via via ipotizzate, come le indicazioni o designazioni da parte degli elettori.
Infine, tutto viene affidato a una successiva legge. Qui c’è l’unico effettivo miglioramento, perché non si tratta più di legge regionale, ma di legge statale. Diversamente, ogni regione avrebbe fatto i senatori a propria immagine e somiglianza, magari dando un’aggiustatina alle regole in prossimità del turno elettorale, per garantire il seggio a un amico o sodale.
E se comunque alla fine, nonostante le maglie così larghe, l’assemblea territoriale non si attenesse alla «conformità», magari per motivi futili o abietti, familistici o di clan? Quali rimedi? Un mondo nuovo di interessanti possibilità si apre per politici affamati di clientele e avvocati.
L’emendamento Pd non può in alcun modo essere gabellato come ripristino dell’elettività dei senatori. Gli altri emendamenti concordati sono poca cosa, e avremo modo di occuparcene. La riforma era pessima, e tale rimane. Interessa ora vedere se Grasso sarà indotto a una apertura anche su altri emendamenti. Ma intento una domanda rimane: perché la minoranza Pd ha dato disco verde? Forse per l’originalità della soluzione, visto che non ci risultano altre esperienze in cui si trovi una sovranità a mezzadria tra il popolo e un’assemblea elettiva territoriale? Possibile che credano davvero di avere difeso con efficacia i fondamenti della democrazia?
Per una lettura diffusa gli ex dissidenti hanno barattato la Costituzione con qualche mese di poltrona senatoriale. Letture più sofisticate parlano di partite giocate nel Pd emiliano. Probabilmente c’è del vero in entrambe. Ma intanto è certo che Renzi ha saputo giungere allo sterminio politico della minoranza, di cui ha dimostrato l’irrilevanza. Forse, l’irrigidimento apparentemente irragionevole e incomprensibile su riforme palesemente sbagliate è stato strumentale anche a questo obiettivo.
Della minoranza Pd avremmo voluto condividere obiettivi e ambasce. Potevano nascerne esperienze politiche significative. Per come si arriva al traguardo, non è così. Anzi, troviamo si adatti bene agli ex dissidenti una storica battuta cara a molti di noi: andate senza meta, ma da un’altra parte.

Il Sole 24.9.15
Intesa, gli effetti opposti sul Pd e il ruolo del Colle
Non solo le rotture ma anche le intese producono reazioni a catena
Succede che nel Pd, dopo la mediazione sul Senato, non si parli più di scissione e che, invece, in Forza Italia non solo se ne parli ma stia già accadendo
di Lina Palmerini

L’accordo raggiunto sul Senato è solo una tappa, come lo è stata l’intesa sull’elezione di Sergio Mattarella. Sul momento il Pd trovò la sua compattezza, la minoranza affermò un suo ruolo e Renzi riuscì a non fare quello che Bersani aveva fatto, ma durò poco. Perché a far esplodere di nuovo le tensioni furono le elezioni amministrative, prima ancora che il Jobs act. E così accadrà anche questa volta. Ci saranno sicuramente battaglie di “sinistra” sulla legge di stabilità – sulla sanità, pensioni o Tasi – ma non avranno la forza di quell’ultimatum che si è sentito sulla riforma del Senato perché ci si avvicinerà alle amministrative. È lì che si risentirà il “richiamo della ditta” perché le comunali mettono in ballo pezzi di partito sul territorio, ceto politico da arruolare con la minoranza o con la maggioranza. I giochi si riapriranno a gennaio quando si tratterà di selezionare i candidati per città come Milano o Napoli.
Dall’altra parte dell’emiciclo, l’intesa sul Senato sta producendo una scissione soft: Forza Italia come un rubinetto che perde sta lasciando al suo destino i gruppi parlamentari. La decisione di Berlusconi di annullare senza una ragione l’assemblea dei senatori suona come un tana libera tutti. Ma soprattutto lo sbando sembra sia dovuto all’intenzione – detta dal Cavaliere – di non ricandidare nessuno dei parlamentari. L’effetto, appunto, è che molti cominciano a correre da Verdini per cercare – almeno – di far durare la legislatura.
E se la mediazione ha i suoi effetti collaterali – e opposti – in Pd e Forza Italia, un ruolo lo ha avuto anche il Colle. Qualche giorno fa, prima della direzione Pd, Vannino Chiti è andato al Quirinale. Erano i giorni cruciali delle trattative, quelli in cui sembrava che davvero si sarebbe arrivati a una rottura dentro al partito con il rischio di mettere fine anche alla legislatura. Al Senato raccontano di quel faccia a faccia tra il senatore della minoranza e il capo dello Stato e di come, poi, più facilmente si sia trovata la scappatoia politico-lessicale. E altri colloqui avrebbe avuto il Colle anche con la maggioranza renziana per aiutare una soluzione da offrire in quella direzione di partito di lunedì scorso. Insomma, che il Quirinale abbia favorito l’intesa è noto nei piani alti di Palazzo Madama, ed è ovvio visto che le conseguenze su un mancato accordo si sarebbero sentite sulla legislatura. Naturale che il Colle se ne occupasse.
E in qualche colloquio si è ragionato non solo sulla riforma del Senato ma anche sulle conseguenze di una rottura nel Pd. Era noto che il capo dello Stato non considerasse lo scioglimento anticipato delle Camere come una delle opzioni, ipotesi che riteneva deleteria per il Paese per più di una ragione: la legge di stabilità e la sessione di bilancio che sta per arrivare, il contesto economico, la crisi migratoria. Ma alcuni raccontano che al Colle si sia fatto notare che il potere di scioglimento o non scioglimento non sia assoluto. E che si sia ricordato un precedente: aprile 1987, cade il Governo Craxi, l’allora presidente Cossiga non vuole sciogliere e affida, dopo altri tentativi, l’incarico a Fanfani che forma un Esecutivo monocolore Dc, va a giurare da Cossiga ma, poi, non ottiene la fiducia. Non la ottiene perché la Dc, segretario De Mita che vuole le urne, si mette di traverso e Martinazzoli, capogruppo alla Camera, fa la dichiarazione per l’astensione. Risultato: Cossiga prende atto e scioglie le Camere. Il precedente rende chiaro quale peso abbia il partito di maggioranza relativa: per entrambi i duellanti del Pd, il non accordo avrebbe avuto un esito incerto e – in ogni caso lacerante. Meglio la mediazione.

Il Sole 24.9.15
Renzi tiene unito il partito e guarda al rimpasto
di Emilia Patta

Una strettoia che alla fine non aveva altra uscita che la scissione. Questa, in fin dei conti, la via su cui la minoranza del Pd si era incamminata e che è stata abbandonata in tempo utile. Portare fino in fondo la battaglia contro il Senato delle Autonomie eletto in secondo grado dai Consigli regionali avrebbe infatti comportato il “no” anche al referendum confermativo che si terrà se tutto andrà secondo i tempi stabiliti, emendamenti di Calderoli a parte nell’autunno del 2016. Un’ipotesi da fantapolitica, per chi fa parte dello stesso partito di un segretario e premier che ha puntato molto su quell’appuntamento: riformisti da una parte, conservatori dall’altra. O dentro o fuori. E la minoranza del Pd ha deciso saggiamente di restare dentro. Da qui lo scongelamento degli ultimi giorni, frutto anche della considerazione che il popolo democratico non avrebbe compreso una rottura su un comma di un articolo piuttosto che un altro. E da parte sua il premier, che ha il piglio politico del combattente, ha avuto in questo caso la saggezza di aprire l’unico spiraglio possibile: l’intervento sul comma 5 dell’articolo 2, appunto, in quanto unico comma di quell’articolo modificato dalla Camera secondo il principio che governo e maggioranza hanno assunto della doppia copia conforme (non è più emendabile quanto già approvato nell’identico testo da entrambe le Camere). E alla fine il risultato come ammette un renziano come Giorgio Tonini, vicecapogruppo del Pd in Senato è «migliorativo». A dimostrazione che quando si sta sul merito il confronto può essere positivo. Come accaduto già con il Jobs act durante i lavori della commissione Lavoro della Camera presieduta dall’esponente della minoranza “lealista” Cesare Damiano e come accaduto anche con l’Italicum, nonostante i 40 no alla fiducia messi in mostra dai bersaniani a Montecitorio, dal momento che nella seconda versione la legge elettorale ha accolto molte delle richieste migliorative della minoranza del Pd. Ma certo Renzi non è un politico che cede sui principi per lui inderogabili: non ha ceduto sull’articolo 18, e anche nel caso della riforma costituzionale, pur con la modifica che fa sì che i futuri senatori saranno «scelti» dagli elettori nell’ambito delle elezioni regionali, i principi sono rimasti. Ossia l’elezione giuridicamente di secondo grado (sono i Consigli regionali che eleggono i senatori in base alla scelta dei cittadini) e il fatto che i futuri senatori non godranno di un’indennità propria essendo pagati dalla Regione come consiglieri.
Questo tenere il punto sui principi di fondo delle riforme messe in campo porta a un’altra considerazione. Il metodo Mattarella invocato da Pier Luigi Bersani, ossia il confronto interno al Pd per giungere a un compromesso diverso dalle posizioni di partenza, è un metodo che è andato bene per l’elezione del presidente della Repubblica ma non è un metodo che Renzi ha intenzione di replicare. Anche il modo in cui è stata condotta la trattativa è significativo: il premier ha fatto la sua apertura in una occasione pubblica (la direzione del Pd) e ha lasciato la sintesi al lavoro dei senatori, ma non c’è stato alcun incontro con i leader della minoranza, a partire dallo stesso Bersani. Renzi insomma non tratta con la minoranza interna, e non lo fa non solo per un suo tratto caratteriale ma per una ragione politica: il tempo dei “caminetti”, con tutti i leader riuniti che dettavano le condizioni al segretario, è finito per il semplice fatto che le primarie aperte hanno cambiato e rafforzato enormemente la base di legittimazione del leader del Pd. Ieri lo stesso Bersani, oggi Renzi, domani un altro o un’altra.
Alla minoranza del Pd, esclusa la via della scissione, non resta che contribuire nel merito dei provvedimenti cercando di far passare le modifiche ritenute utili: questa la lezione di fondo della vicenda sull’elettività dei senatori. Preparandosi legittimamente, nel contempo, al confronto congressuale del 2017 a partire dall’individuazione di una leadership adeguata. Anche nell’intento di far prevalere in tutta la minoranza il metodo dei “lealisti” il premier sta studiando il mini-rimpasto che ci sarà con ogni probabilità dopo l’approvazione del Ddl Boschi in Senato per riempire le caselle rimaste vuote. L’idea è sempre quella di coinvolgere nel governo con un ruolo di primo piano (sottosegretario alla Presidenza o viceministro allo Sviluppo) una personalità come quella di Vasco Errani, definito dallo stesso Bersani «amico fraterno». Così come la nomina di Enzo Amendola a viceministro agli Esteri, data da tutti per scontata, ha il significato di premiare quella minoranza “lealista” che sulla fiducia all’Italicum si è stac cata da Bersani e dai suoi.

La Stampa 24.9.15
La carica dei nuovi Scilipoti: “Non vogliamo andare a casa”
E in sei abbandonano Berlusconi anche alla Camera
di Ilario Longobardo

Si chiamino un po’ come si vuole, i «neo-responsabili», i «compravenduti», o i verdiniani: sono creature del parlamentarismo, che, a dirla con Domenico Auricchio, «come tutti non hanno proprio voglia di andarsene a casa». Prendiamo lui, Auricchio, detto Mimì. Ha lasciato Forza Italia. E’ alla prima legislatura, ripescato in Campania dopo il passaggio di Alessandra Mussolini a Bruxelles. Domanda: lo sa che l’accusano di voler arrivare al 2018 per assicurarsi la penrsione? Risposta (digrignando i denti): «Ma qua’ pensione. Io sono un guerriero dei voti. Questi qui invece sono tutti nominati. Se lo faccia dire da un commerciante, un Auricchio, ha presente il provolone?». Mimì, un posticino nel cuore di Silvio Berlusconi sogna di averlo ancora: dopotutto fu lui ad aver registrato il nome “Pdl” prima della svolta del predellino. Gelosamente, conserva come reliquie le registrazioni della viva voce dell’ex Cavaliere che lo ringrazia. «A Berlusconi voglio bene più dell’anima mia. Ma la classe dirigente del partito non c’è più». Addirittura, Auricchio teorizza di non aver mai lasciato Fi: «Perché, quelli di Verdini che sono, non sono tutti forzisti?». Alla Camera, intanto, altri sei deputati di fede verdiniana hanno lasciato gli azzurri. Ignazio Abrignani, Luca d’Alessandro, Monica Faenzi, Giuseppe Galati, Giovanni Mottola, Massimo Parisi. Al Senato con Auricchio e Francesco Amoruso da Fi, e Peppe Ruvolo da Gal, nel nuovo gruppo di Verdini sono in 13. L’esodo si annuncia senza fine e il capogruppo dei senatori Paolo Romani liquida la faccenda così: «Li hanno comprati a poco…». Sarà, ma la riunione di oggi alla presenza di Berlusconi è stata annullata. Il senatore Barnabò Bocca è più fuori che dentro. Mentre Franco Carraro smentisce di aver pronti i bagagli: «Sulle riforme faccio quello che fa Fi. Per me la coerenza sta nelle cose: sapevo che questa sarebbe stata la mia prima e ultima legislatura». Ma proprio per il motivo opposto confessa di «comprendere le ragioni» di quei colleghi che vogliono continuare con la politica: «E poi, se Renzi toglie l’Imu sulla prima casa…come fai a non votare con lui…». Riccardo Villari (ex Cdu, ex Udeur, ex Pd) invece non ha ancora deciso. Diverse volte lo hanno dato arruolato con Verdini: «Ma il clima dopo l’accordo nel Pd si è alleggerito. E’ anche ormai inutile parlare di compravendita. Cosa compreresti ora? Un voto che non serve a niente».
Si chiamino un po’ come si vuole, i «neo-responsabili», i «compravenduti», o i verdiniani: sono creature del parlamentarismo, che, a dirla con Domenico Auricchio, «come tutti non hanno proprio voglia di andarsene a casa». Prendiamo lui, Auricchio, detto Mimì. Ha lasciato Forza Italia. E’ alla prima legislatura, ripescato in Campania dopo il passaggio di Alessandra Mussolini a Bruxelles. Domanda: lo sa che l’accusano di voler arrivare al 2018 per assicurarsi la penrsione? Risposta (digrignando i denti): «Ma qua’ pensione. Io sono un guerriero dei voti. Questi qui invece sono tutti nominati. Se lo faccia dire da un commerciante, un Auricchio, ha presente il provolone?». Mimì, un posticino nel cuore di Silvio Berlusconi sogna di averlo ancora: dopotutto fu lui ad aver registrato il nome “Pdl” prima della svolta del predellino. Gelosamente, conserva come reliquie le registrazioni della viva voce dell’ex Cavaliere che lo ringrazia. «A Berlusconi voglio bene più dell’anima mia. Ma la classe dirigente del partito non c’è più». Addirittura, Auricchio teorizza di non aver mai lasciato Fi: «Perché, quelli di Verdini che sono, non sono tutti forzisti?». Alla Camera, intanto, altri sei deputati di fede verdiniana hanno lasciato gli azzurri. Ignazio Abrignani, Luca d’Alessandro, Monica Faenzi, Giuseppe Galati, Giovanni Mottola, Massimo Parisi. Al Senato con Auricchio e Francesco Amoruso da Fi, e Peppe Ruvolo da Gal, nel nuovo gruppo di Verdini sono in 13. L’esodo si annuncia senza fine e il capogruppo dei senatori Paolo Romani liquida la faccenda così: «Li hanno comprati a poco…». Sarà, ma la riunione di oggi alla presenza di Berlusconi è stata annullata. Il senatore Barnabò Bocca è più fuori che dentro. Mentre Franco Carraro smentisce di aver pronti i bagagli: «Sulle riforme faccio quello che fa Fi. Per me la coerenza sta nelle cose: sapevo che questa sarebbe stata la mia prima e ultima legislatura». Ma proprio per il motivo opposto confessa di «comprendere le ragioni» di quei colleghi che vogliono continuare con la politica: «E poi, se Renzi toglie l’Imu sulla prima casa…come fai a non votare con lui…». Riccardo Villari (ex Cdu, ex Udeur, ex Pd) invece non ha ancora deciso. Diverse volte lo hanno dato arruolato con Verdini: «Ma il clima dopo l’accordo nel Pd si è alleggerito. E’ anche ormai inutile parlare di compravendita. Cosa compreresti ora? Un voto che non serve a niente».

Repubblica 24.9.15
Saverio Romano, ex ministro azzurro
“Con Denis avremo futuro,con Silvio no”
Fi è in declino per l’incapacità di rinnovare una leadership non più spendibile e per la cessione di sovranità a Salvini
intervista di C. L.

«Berlusconi? Non offre più alcun progetto. Io almeno non lo vedo. Assistiamo giorno dopo giorno al declino di un partito che per anni è stato il riferimento dei moderati italiani, declino per incapacità di rinnovare una leadership non più spendibile, perché il board è passato a figure francamente modeste, per la cessione di sovranità a Salvini. Io mi riprendo libertà di parola e di azione ». Saverio Romano è solo l’ultimo ex ministro di Fi a dire addio al Cavaliere (prima di lui Fitto). Lo fa con una lettera con cui, assieme al collega deputato Pino Galati e al senatore Giuseppe Ruvolo, saluta il leader «con affetto» ma «non ci piace un partito non partito».
Perché passate con Verdini? Che progetto offre invece lui? «Con altri colleghi di Fi abbiamo condiviso il disagio, quindi l’esigenza di rappresentare i nostri territorio in un’area di centro di ispirazione riformista ».
Volano accuse di compravendita.
«Le accuse infamanti e senza prove qualificano chi le muove. Denis ha avuto il merito di costruire un percorso di alleanza istituzionale per dare continuità e slancio a una legislatura altrimenti destinata all’esaurimento».
Insomma, è una polizza assicurativa per arrivare a fine legislatura?
«No, è un progetto credibile per il futuro dei moderati. Verdini, nonostante Berlusconi abbia rotto il patto per le riforme, sta difendendo quell’intesa con coerenza. E da questa intuizione nasce un’opportunità per la riaggregazione del centro».
Perché ha rotto con Fitto?
«Non si può coltivare uno spazio politico che abbia come king maker Salvini, a meno che non si scelga di essere subalterni alla Lega populista. Io e i miei amici sinceramente non siamo interessati».
Con l’accordo nel Pd, Verdini e i suoi non saranno determinanti sulla riforma.
«In apparenza no. Politicamente a quel progetto però diamo sostanza. Non è la vocazione al soccorso che ci ha spinto».
No? E cosa?
«Una prospettiva politica che costruiremo giorno dopo giorno».
Già, ma ora chi vi ricandida?
«Il cammino verso il 2017, se non 2018, è ancora molto lungo».
(c.l.)

Corriere 24.9.15
Un passo in avanti. E tre dubbi
di Michele Ainis

«E tu, donna, partorirai figli con dolore» ( Genesi , 3, 16). Vale per le creature umane, vale per un’istituzione femminile che si chiama Repubblica italiana. Solo che nel primo caso la gravidanza dura nove mesi, nel secondo ne sono trascorsi già diciotto. Nel frattempo la riforma costituzionale è alla terza lettura, ne mancano altre tre. Dopo l’accordo politico di ieri, tuttavia, il parto s’avvicina. Ed è un bene, perché una gestazione troppo prolungata rischia d’uccidere il bambino. Ma con quali sembianze s’affaccerà al mondo il pargoletto?
Diciamolo: decisamente più aggraziate rispetto all’ultima ecografia, e anche rispetto alla penultima. Gli emendamenti concordati recuperano il ruolo di garanzia del Senato, quantomeno rispetto all’elezione dei giudici costituzionali. Gli assegnano funzioni di controllo, che si erano perse un po’ per strada. Ne fanno un organo di raccordo sia verso il basso (le Regioni) sia verso l’alto (l’Europa). Infine introducono il principio dell’elettività dei senatori, sia pure con modalità da precisarsi in una legge successiva. Questo giornale l’aveva chiesto con un editoriale del proprio direttore (21 settembre). E soprattutto lo chiedeva il 73% degli italiani, come attesta il sondaggio Ipsos pubblicato il 16 settembre dal Corriere .
Diciamolo di nuovo: è un bel passo in avanti. Dimostra che anche Renzi l’inflessibile sa essere flessibile, quando serve per incassare un risultato.
Lui stesso, d’altronde, ha ricordato che il testo originario del governo ha già subito 134 modifiche, nel ping pong fra Camera e Senato. Però non è finita, non ancora. E il lieto fine reclama ulteriori aggiustamenti su tre aspetti.
Primo: il metodo. Fin qui abbiamo assistito a un match di pugilato fra maggioranza e minoranza del Pd. Ora i due pugili si sfilano i guantoni, evviva. Ma in Parlamento non abita il partito unico fascista, ci sono pure gli altri. E andrebbero ascoltati, coinvolti, valorizzati. Sia perché la riscrittura della Costituzione esige il massimo sforzo per ottenere il massimo consenso. Sia per evitare ostruzionismi devastanti. Qualche contatto in più con gli esponenti della Lega, per esempio, ci avrebbe forse risparmiato il Carnevale degli emendamenti (85 milioni) allestito da Roberto Calderoli.
Secondo: le forme. Perché in ogni testo normativo i principi vanno poi tradotti in commi, e i commi si dislocano all’interno degli articoli. Se un comma è fuori posto, se un articolo è mal scritto, allora il principio resta informe, oppure si converte in una maschera deforme. È quanto rischia d’accadere con l’emendamento sull’elettività dei senatori: un unico periodo di 48 parole, e con due sole virgole. Prima di recitarlo bisogna fare un bel respiro. Per piacere, fate in modo che la Costituzione italiana sia scritta in italiano.
Terzo: i vuoti. Rimangono omissioni, lacune da colmare. Quanto al rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, per esempio; e sarebbe anche un’occasione per tirare dentro i 5 Stelle. Quanto all’elezione del capo dello Stato: dal settimo scrutinio bastano i tre quinti dei votanti, anche se vota una sparuta minoranza. Quanto all’ iter legis, dove serve una cura dimagrante, perché dieci procedimenti legislativi sono davvero troppi. Quanto alla linea di confine tra materie statali e regionali, dato che in questo campo ogni pasticcio genera un bisticcio. Non è un’impresa erculea, ci si può riuscire. E se si può, si deve.

Repubblica 24.9.15
Battaglia sul “bavaglio” primo sì alla legg
 L’Anm: molto deludente
Lo strappo delle toghe “I dem non sono più il nostro baluardo”
di Liana Milella

ROMA È finita per sempre in archivio la stagione del grande feeling tra il Pd e la magistratura. Nonostante il Guardasigilli Orlando si sforzi, a ogni commissione di studio che crea, di bilanciare i componenti con il Cencelli delle toghe. Un’altra epoca si è aperta, quella della paura di parlare per il timore di finire sotto procedimento disciplinare. Si censurano perfino nelle mailing list dove, in questi giorni, non si riesce a trovare quasi nulla contro la legge bavaglio. Giusto, qui e là, qualche intervento che critica singole tecnicality, come il minor tempo per chiudere le indagini. «La magistratura è spaventata. Tra di noi serpeggia una grande paura perché è caduta qualsiasi protezione » dice un magistrato attento come Sebastiano Ardita che, con Pier Camillo Davigo, ha fondato l’ultima corrente delle toghe, dal nome significativo “Autonomia e indipendenza”. Non si riesce a strappargli una parola di più. Sono finiti i grandi sfogatoi, come ai tempi di Berlusconi. Dall’altra parte non c’è più il Pd solidale, quello pronto anche a scendere in piazza, che faceva a gara per candidare magistrati alla Camera e al Senato.
Se chiedi al segretario dell’Anm Maurizio Carbone, pubblico ministero a Taranto del caso Ilva, come mai nelle mailing list non ci sono interventi contro la riforma penale, ti risponde in modo chiaro, com’è nel suo costume: «È molto semplice. Il clima è completamente cambiato. Quando i magistrati protestavano contro Berlusconi accadeva subito che in Parlamento ci fossero interventi per sostenere le nostre posizioni ». Allude al Pd ovviamente. Va avanti: «Si vedeva che c’era attenzione e interesse per i nostri problemi. Adesso purtroppo non è più così». Il Pd ha cambiato pelle. La riforma delle intercettazioni è una ferita aperta: «Mentre dilaga la corruzione il problema sembra essere un altro, la riservatezza da garantire a certi personaggi pubblici» dice Carbone. E ancora: offende i magistrati quell’aver votato a favore, M5S compreso, sulla relazione in Parlamento sui casi di ingiusta detenzione. «Ci vogliono fregare, è chiaro» dice un giudice che appena pronuncia la battuta ci scongiura «di non scriverla».
Sul banco degli imputati c’è il Pd, «i traditori, i voltagabbana, divenuti ormai tutti renziani ». Uno dei pochi che non ha paura di scrivere ancora nelle liste aperte perfino alla stampa, come Andrea Reale, iscritto alla movimentista Proposta B, ce l’ha con la politica, ma ce l’ha pure con l’Anm, accusata di aver garantito al governo «aperture preventive di credito sulla responsabilità civile e sulle ferie ». Adesso a un collega scrive: «Ma cos’altro dobbiamo aspettare per comprendere come vanno le cose? Con la responsabilità civile hanno già inferto un vergognoso colpo alla nostra autonomia».
Il Pd renziano ha moltissime colpe. Luca Poniz, pm a Milano, da sempre di Magistratura democratica, cita la segretaria della corrente Anna Canepa quando, al congresso di Reggio Calabria prima dell’estate, ha parlato dell’alleanza di fatto che, in passato, garantiva il rapporto tra il Pd e la magistratura, mentre ora «il fronte politico si è ridisegnato, i magistrati non piacciono più come prima, manca pure un vero disegno riformatore, tant’è che Renzi chiama al governo un magistrato di destra come Ferri per fare il sottosegretario ». I “tradimenti” del Pd stanno nel lungo elenco delle norme approvate e giudicate tutte contro la magistratura. Claudio Castelli, toga storica di Md, constata: «Ogni volta che il Pd è al governo è contro i magistrati, quando passa all’opposizione è a favore». Solo così si giustifica il sì alla delega sulle intercettazioni, fatta «per condizionare i pm e i giudici». Ma non solo. C’è il sì del Pd alla responsabilità civile che, ricorda Carbone, Orlando ha definito «un passo storico per la giustizia italiana». Ci sono le ferie per decreto, l’età pensionabile, l’annunciata riforma del Csm. Poi tutto il non fatto, a partire dalla prescrizione. Altro che a favore, il Pd è contro i magistrati.

Repubblica 24.9.15
Se il premier riapre il fronte della giustizia
I dubbi dei magistrati sulle norme che regolano le intercettazioni espongono il governo a una nuova fase di ostilità
di Stefano Folli

DIFENDERE il diritto alla “privacy” dei cittadini che non hanno commesso illeciti, evitare gli abusi e al tempo stesso garantire un efficace strumento di indagine alla magistratura. Dovrebbe essere l’obiettivo della legge sulle intercettazioni, ma forse le contraddizioni sono troppo grandi. O forse il governo e in particolare il ministro della Giustizia stavolta non sono riusciti a vincere la battaglia mediatica e a farsi capire da tutti.
Sta di fatto che le nuove misure, da definire nell’ambito della riforma del processo penale, sono già state battezzate “legge bavaglio”, e non solo perché così le hanno descritte i Cinquestelle. Il fatto è che si tratta di materia sensibile e non si può dare l’impressione, anche solo l’impressione, che l’intento sia tutelare i politici o altri esponenti della cosiddetta “casta”, andando a coprire qualche scandalo presente o futuro. Tanto meno può aleggiare il sospetto, anche solo il sospetto, che si voglia ridurre il diritto di cronaca.
È verosimile che l’intervento governativo non abbia queste finalità, ma contano anche le apparenze e il modo con cui si affrontano certe questioni. Le frasi infelici di Renzi sui “talk show” televisivi, l’evidente preferenza per un’informazione a tinte rosa, ottimista e dedita a raccontare realtà positive, segnalano la tentazione di interferire con la libertà dei giornalisti. Il governo contro la stampa: un classico del potere sotto ogni latitudine. Di conseguenza non stupisce che divampino le polemiche per la legge, pur doverosa, che regolerà le intercettazioni. E che viene rappresentata facilmente, a causa delle contraddizioni e della scarsa chiarezza, come un’operazione opaca del palazzo della politica.
Se è così, il governo ha l’opportunità di riflettere e correggere i punti controversi della normativa. Del resto, la legge sul processo penale è stata approvata dalla Camera e deve ora passare al vaglio del Senato, dal momento che non è ancora in vigore — come è noto — la riforma costituzionale che abolirà la doppia lettura. In questo caso si potrebbe dire: per fortuna.
Non è tutto. Gli attacchi dei Cinquestelle erano stati di certo preventivati a Palazzo Chigi. Le critiche piuttosto aspre dell’associazione dei magistrati, viceversa, sono più insidiose. La potente corporazione si dichiara insoddisfatta e giudica “incoerenti” le misure del governo. Può essere solo un atto dovuto, una reazione di bandiera inevitabile data la natura para-sindacale dell’organismo. Ma può essere invece l’avvio di una fase di ostilità i cui riflessi sono difficili da valutare oggi. Il problema è: Renzi e il suo governo sono in grado di reggere una ripresa di iniziative giudiziarie ad ampio spettro? L’effetto destabilizzante di una tale offensiva non ha bisogno di essere illustrato. E qualche segnale è già stato registrato nel recente passato.
Senza dubbio il presidente del Consiglio è consapevole del rischio. D’altra parte, non è verosimile che l’azione riformatrice del governo, tanto enfatizzata, si arresti di fronte ai temi della giustizia. Peraltro prioritari in vista di restituire una complessiva credibilità al Paese.
Quindi da oggi c’è un elemento in più da considerare nel cammino della legislatura: il risentimento del potere giudiziario e le conseguenze che ne potranno derivare sul piano politico, anche all’interno della maggioranza.
Non è strano, ad esempio, il costante rafforzamento del gruppo di Denis Verdini, con il parallelo sfaldamento di Forza Italia. È vero che l’intesa nel Pd sulla riforma del Senato rende forse ininfluenti i voti dei transfughi sulla legge costituzionale. Ma la legislatura è lunga e si profilano numerose le situazioni in cui la pattuglia verdiniana sarà in grado di puntellare la maggioranza. Di fatto Renzi dispone oggi di una sponda che potrà tornargli utile in mille casi, specie se la navigazione del governo affrontasse acque agitate. Uno scenario nuovo che tende a ridimensionare il potere dell’alleato Alfano.

La Stampa 24.9.15
Intercettazioni quando è giusta la pubblicazione
di Vladimiro Zagrebelsky

Il testo di modifiche al processo penale approvato ieri dalla Camera è rimasto a lungo bloccato sullo scoglio duro delle intercettazioni, che, si ritiene, troppo spesso vengono pubblicate. L’intenzione di limitarle è stata accompagnata da un’eccessiva semplificazione del problema, come si è visto sulla questione che, in mancanza di accordo nella maggioranza, ha spinto a non sciogliere il nodo e dar delega al governo. Trovi il governo la soluzione, se non la troverà il Senato che ora esaminerà il provvedimento. Si tratta del modo di selezionare, tra le conversazioni intercettate, quelle utili al processo cancellando le altre. A quella selezione è legato anche il regime della pubblicabilità. V’era alla Camera chi voleva eliminare la attuale udienza in cui le parti esprimono il loro parere prima che il giudice decida. Ma il processo equo è retto da un principio costituzionale essenziale, quello del contraddittorio.
Il giudice non può decidere se non dopo avere sentito le parti, il pubblico ministero, gli avvocati delle parti civili, gli avvocati degli imputati. Sarebbe impensabile che il giudice da solo scegliesse ciò che serve o non serve al processo e, pensando che sia irrilevante, escludesse questa o quella conversazione. Perché la decisione del giudice tenga conto degli argomenti di tutte le parti, occorre trovare il modo di far loro conoscere le conversazioni intercettate e poi raccogliere le loro opinioni sull’utilità di ciascuna. Ma, si dice, l’udienza con la partecipazione delle parti fa scappare fuori dell’ufficio del giudice conversazioni che, essendo inutili al processo, dovrebbero essere cancellate. Se troppe persone ne vengono a conoscenza, diviene impossibile garantire il segreto o scoprire chi lo ha violato. Tuttavia qualunque procedura venga immaginata, una cosa è certa. Non è possibile selezionare le conversazioni intercettate senza che il giudice che decide senta tutte le parti, dopo che queste ne sono state messe a conoscenza.
Non solo su questo punto occorrerebbe maggiormente considerare che l’ascolto e la registrazione delle comunicazioni che intercorrono tra le persone, si pongono all’incrocio di esigenze numerose e confliggenti. La Costituzione riconosce come inviolabile la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione. Nel medesimo senso sono le convenzioni internazionali in materia di diritti fondamentali. Ma la stessa Costituzione ammette limitazioni al diritto alla riservatezza delle comunicazioni. Vi sono infatti necessità che giustificano intromissioni da parte della autorità pubblica. La più nota è quella che riguarda le indagini sui reati e i conseguenti processi. La Costituzione non indica espressamente quali siano le ragioni che giustificano l’intercettazione di comunicazioni. Solo impone che a ordinarla sia l’autorità giudiziaria, con un atto motivato, con le garanzie previste dalla legge. Tra quelle garanzie rientrano i limiti posti alla pubblicizzazione delle conversazioni intercettate. Si tratta di limiti e non di divieto assoluto, come dimostra la regola della pubblicità dei processi (che conosce poche eccezioni), che espongono al pubblico fatti anche estremamente delicati che normalmente sarebbero coperti dalla riservatezza cui in linea di principio ha diritto ogni persona. Ma ancora dalla Costituzione emergono altri legittimi limiti alla riservatezza. La libertà della stampa implica evidentemente anche quella di pubblicare fatti e opinioni che le persone preferirebbero mantenere segrete o almeno non conosciute dal grande pubblico. Il giornalista non può offendere la reputazione delle persone, se non violando le regole deontologiche della sua professione e rischiando una querela per diffamazione, ma vi è una grande area di fatti di cui comunque può dare notizia, perché sono di interesse pubblico. Non si tratta di fatti utili a soddisfare la curiosità del pubblico, ma che riguardano personaggi della vita politica, economica, sociale e che in una democrazia il pubblico deve poter conoscere. Ogni divieto di pubblicazione dell’esito delle intercettazioni legittimamente disposte dal magistrato deve confrontarsi con l’obbligo di non interferire con il diritto di dare e di ricevere la maggior informazione possibile su fatti di interesse pubblico. I divieti e le sanzioni che esistono e quelli che introduce la nuova legge non possono entrare in collisione con la libertà di informare e di essere informati. E i fatti di interesse pubblico non sono solo quelli che riguardano gli indagati nel processo penale o che sono penalmente rilevanti, come invece si è preso a dire come fosse ovvio. Non è vero e eccessi e abusi nelle pubblicazioni non dovrebbero consentire soluzioni che impediscano l’uscita di notizie utili, anche se scomode. Spesso vediamo fare scandalo la pubblicazione di certi fatti, piuttosto che i fatti stessi.

Il Sole 24.9.15
Il rischio dell’«indagine breve»
Piero Calamandrei, sessant’anni fa, scriveva che è il «costume» a plasmare il processo, ben più delle sue regole
di Donatella Stasio

Continua da pagina 1 Perché le regole a cominciare da quelle costituzionali «rimangono vive finché vi scorre dentro, come il sangue nelle vene, la forza politica che le alimenta: se questa viene meno, si atrofizzano e muoiono di sclerosi». Il ddl sul processo penale approvato ieri è il prodotto di un «costume» smarrito. Nel processo, ma anche nella politica. E per certi versi nell’informazione. Perciò la riforma, da sola, rischia di fallire gli obiettivi ambiziosi dichiarati da governo e maggioranza, peraltro non sempre tradotti in norme coerenti. Ciò spiega, forse, anche la genericità della delega sulle intercettazioni, che sembra una pistola puntata alla tempia del diritto di cronaca e pronta a sparare, non si sa ancora se a salve o per ferire. E spiega la demagogia delle dosi di carcere dispensate all’unanimità nonché l’enfasi eccessiva sulla “ragionevole durata del processo”, in particolare delle indagini, dietro la quale si nasconde l’immancabile diffidenza verso i magistrati.
Le novità procedurali, oltre che del «costume», sono orfane anche di un adeguato supporto di risorse e di misure deflattive. Le prime sono state forse concentrate più sul civile e sottratte al penale, una scelta politica seguita peraltro anche in molti uffici giudiziari «virtuosi» e presi a modello, come Torino, che oggi però ne paga un prezzo nel penale con i 26mila processi penali pendenti in Corte d’appello, l’arretrato più alto d’Italia. Quanto alle seconde, cruciale è la depenalizzazione dei reati minori, affidata al governo con una delega del 2014 e che scadrà a metà novembre, per decongestionare gli uffici giudiziari ed evitare di riempire il carcere di piccoli delinquenti. Tuttavia, il testo messo a punto l’anno scorso da un’apposita commissione ministeriale non è stato ancora trasmesso a Palazzo Chigi. La Lega già agita lo spettro della sicurezza, sapendo di far breccia su un governo un po’ ondivago che predica la decarcerizzazione e poi, però, cavalca gli aumenti di pena per furti, scippi e rapine votati nei giorni scorsi, e che lascia morire un’altra delega strategica, quella sulle pene alternative alla detenzione, scaduta all’inizio dell’anno e di cui non si sente più parlare.
Senza un impegno su questi versanti, molte nuove norme rischiano di restare sulla carta e potrebbero rivelarsi persino contropruducenti. Per esempio quelle sulla «durata certa delle indagini», che fissano paletti alle Procure per chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione, pena l’avocazione dell’indagine da parte del Pg d’appello, e che sanzionano disciplinarmente il ritardo nell’iscrizione della notizia di reato. Obblighi già esistenti ma che il ddl ha voluto rendere più stringenti e non senza conseguenze.
Prendiamo quel che è accaduto martedì scorso, a Genova: la Procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo riguardante un Pm di Firenze denunciato dal signor Maiorano (assistito dall’avvocato Taormina) perché non aveva indagato sufficientemente su Matteo Renzi. Molte delle 24 denunce presentate per presunti abusi del premier (dalla casa di Marco Carrai ai rapporti con il generale della Gdf Michele Adinolfi) erano state iscritte, infatti, nel modello 45 (le non notizie di reato) invece che nel modello 21 (notizie contro noti) e si erano chiuse con l’archiviazione ma i Pm genovesi hanno escluso qualunque omissione di doveri d’ufficio. Ebbene, ora facciamo uno sforzo di fantasia e immaginiamo che cosa potrebbe accadere con le nuove norme
sulle indagini.
Il Pm di Firenze, una volta ricevuta la denuncia, dovrebbe iscrivere subito Renzi nel modello 21 e la “notizia” si diffonderebbe in un attimo (non foss’altro per l’automatismo imposto dalle nuove norme) con grande risalto mediatico e relative strumentalizzazioni politiche. Se il Pm iscrivesse nel modello 45, potrebbe essere accusato di voler favorire il premier (formalmente la denuncia contiene un nome, un cognome e una notizia di reato, quindi tutti gli elementi per iscriverla nel modello 21) o, al contrario, di voler eludere il cronometro delle indagini, che parte con l’acquisizione della notizia di reato e la sua contestuale iscrizione nel modello 21, altrimenti il Pm ne risponde disciplinarmente. Insomma, avremmo questo scenario: fuochi d’artificio mediatici sul “premier indagato” e polemica politica a go-go, nonché Pm burocrati che, per evitare sanzioni disciplinari e polemiche, corrono a iscrivere chiunque. Avremmo anche uffici più intasati da notizie di reato iscritte, ancorché sgangherate, su cui svolgere quanto meno uno straccio d’indagine prima dell’archiviazione. E se i termini scadranno, tutto finirà sulle spalle dei Pg della Corte d’appello.
Politici, personaggi pubblici e istituzionali, manager di grandi imprese... Tutti indagati sulla base di una semplice denuncia, di un esposto. Pensiamo all’amministratore delegato di un grande gruppo industriale denunciato per appropriazione indebita o altro reato e quindi indagato senza alcuna valutazione preliminare del Pm. Pensiamo alle conseguenze della notizia sul mercato... Scenari possibili, frutto di regole forse solo simboliche, che però tradiscono la tendenza ormai di qualche anno a legiferare spinti da un sentimento di diffidenza verso le toghe.
Qualcuno obietterà che i danni sarebbero limitati se la stampa fosse più seria e prudente. Ma poiché ci viene ripetuto che è con il mondo reale che bisogna fare i conti, forse valeva la pena riflettere su queste conseguenze e sul fatto che una notizia di reato è materia spesso magmatica, che richiede un’attenta valutazione del magistrato. Dal quale si deve esigere professionalità e responsabilità, non la gestione burocratica della propria funzione.
Le norme approvate dalla Camera, invece, evocano «il processo breve» tanto agognato da Berlusconi: anche se quel titolo rifletteva un’esigenza giusta e condivisa (i tempi ragionevoli del processo), le norme sottostanti al di là degli scopi reconditi dell’ex premier erano di fatto irrealizzabili senza misure strutturali e adeguate risorse, e sarebbero state micidiali per la sorte
dei processi.
Da allora qualcosa si è mosso sul fronte organizzativo ma non abbastanza per pretendere “l’indagine breve” (esigenza ovviamente condivisa) da Pm che sono alle prese, ciascuno, con migliaia di fascicoli. Salvo volerli trasformare in burocrati, passacarte e irresponsabili.

Corriere 24.9.15
L’inchiesta che scuote il Pd emiliano
Bologna, sindaca anticemento minacciata: due colleghi dem e direttore di Legacoop indagati
di R. B.

Una giovane sindaca del Bolognese, Isabella Conti di San Lazzaro di Savena, pd e renziana della prima ora, che lo scorso dicembre denuncia ai carabinieri pressioni dopo aver fermato un maxi-progetto edilizio di 582 alloggi. E adesso la Procura di Bologna che chiede la proroga delle indagini e inviando le notifiche agli indagati si scopre chi sono i cinque tra amministratori e imprenditori finiti sotto la lente dei magistrati: Simone Gamberini, direttore generale di Legacoop Bologna; il sindaco del Comune di Castenaso, Stefano Sermenghi; l’ex sindaco di San Lazzaro, Aldo Bacchiocchi; l’imprenditore Massimo Venturoli; l’ex presidente del Collegio dei revisori del Comune di San Lazzaro di Savena, Germano Camellini. Insomma una vicenda di tensioni e veleni che coinvolge esponenti del Pd e mondo delle cooperative.
Isabella Conti, 32 anni, di professione avvocato, era diventata sindaco di San Lazzaro nel maggio dell’anno scorso puntando la sua campagna elettorale contro il progetto della «Colata», la costruzione di una new-town di quasi 600 villette in un’area ex agricola a sud del suo paese. Realizzazione affidata a un consorzio misto tra due ditte private e due coop (la Cesi di Imola e la Coopcostruzioni). Come promesso, alla prima occasione formale, la sindaca ha fermato il progetto e a febbraio di quest’anno il consiglio comunale ha approvato una delibera sulla decadenza del Poc, il Piano operativo comunale, dove era prevista la costruzione dell’insediamento edilizio. Perfino il premier Matteo Renzi aveva chiamato la prima cittadina per sostenerla e invitarla a continuare «a testa alta e senza paura». Anche perché nel frattempo la sindaca Conti aveva denunciato un crescendo di pressioni, sopratutto attraverso messaggini sul cellulare.
A quanto si apprende, l’inchiesta coordinata dal pm bolognese Rossella Poggioli e dal procuratore aggiunto Valter Giovannini, ipotizza il reato di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario. Essendo decorsi i termini delle indagini preliminari, la Procura ha chiesto al Gip una proroga per procedere con ulteriori accertamenti, atto che è stato notificato agli indagati e ai loro legali.
«La magistratura farà il suo corso, ma sono convinto di non aver commesso illeciti» ha reagito Stefano Sermenghi, sindaco di Castenaso, uno dei cinque indagati. Anche Sermenghi è molto vicino al presidente del Consiglio, tanto da aver scelto come assessore alla scuola nella giunta del suo Comune proprio la sorella di Renzi, Benedetta.

Corriere 24.9.15
Il neurologo deluso «Così viene umiliata la nostra professione»
intervista di M. D. B.

ROMA «Mi sento offesa, profondamente offesa anche se non direttamente coinvolta. A lei piacerebbe se qualcuno le dettasse quello che deve scrivere in un articolo anziché contare sulla sua professionalità?», domanda Caterina Ermio, membro dell’associazione italiana donne medico di cui è presidente dallo scorso anno, con propositi di rilancio.
Offesa perché?
«Colpiscono solo i medici e non toccano tutto ciò che di sbagliato gira attorno alla sanità. Mi riferisco ad esempio ai soldi sprecati per pagare consulenti, funzionari e impiegati inutili. Lo sa attraverso quante persone devo passare se in assessorato ho bisogno di parlare col responsabile di un servizio? Almeno sette. Un carrozzone. Andate a risolvere queste situazioni. E invece fanno il pelo e contropelo a noi, più facilmente attaccabili. Ci contano i ricoveri».
Lei è neurologa presso il presidio sanitario di Lamezia Terme. Non le passano sotto mano prescrizioni improprie?
«Sì, capita. La tendenza all’eccesso c’è, non si può negare. Per un mal di testa i pazienti arrivano da me, dunque dallo specialista, già in possesso di una Tac con liquido di contrasto o una risonanza magnetica prescritta dal medico di famiglia senza gradualità. Magari basterebbe un elettroencefalogramma, esame proporzionato e meno costoso».
E allora perché prendersela col decreto taglia prestazioni?
«Noi avvertiamo la pressione dei pazienti e il rischio di essere denunciati, non voglio certo negarlo. Molto spesso i cittadini vanno dal medico di base chiedendogli un determinato esame. Magari lo hanno letto da qualche parte su internet. Facciamo l’esempio della tosse. Per comprenderne la causa basta una lastra, e se viene indicata la Tac siamo di fronte a un eccesso. Sarebbe come medicare una slogatura ingessando l’arto...».

il manifesto 24.9.15
Si ammali chi può
E ora sciopero generale della sanità
Mobilitazione generale. Con questo decreto sulla "appropriatezza prescrittiva" si passa dalla centralità del malato a quella dei vincoli amministrativi
di Ivan Cavicchi

Il decreto messo a punto dal ministero della salute è uno schiaffo in piena faccia alla professione medica. E’ la riduzione della clinica a una sorta di medicina di Stato quindi di medicina amministrata. E’ paradossalmente la negazione di una medicina davvero adeguata verso la complessità espressa dal malato. E’ la fine di qualsiasi retorica su umanizzazione e personalizzazione delle cure.
Con questo decreto sulla “appropriatezza prescrittiva” si passa dalla centralità del malato, dalla alleanza terapeutica, dal valore della persona, alla centralità dei vincoli amministrativi ai quali tutti gli atti medici dovranno conformarsi pena la possibilità (fino ad ora solo dichiarata) di penalizzare i malati e i medici con sanzioni pecuniarie. Così i medici diventano dei dispenser burocraticamente eteroguidati, una sorta di distributori di benzina, che prescrivono non più in scienza e coscienza ma secondo protocolli standardizzati. Così la clinica diventa l’esercizio di atti diagnostici e terapeutici standard, i malati perdono la loro individualità diventando astrazioni statistiche. Come si è arrivati a tutto questo?
Con il decreto lo Stato intende recuperare almeno 10/13 mld dalla spesa sanitaria corrente sperando di azzerare quel fenomeno definito “medicina difensiva” per il l quale almeno l’80 % dei medici (indagini fatte dalla categoria) adotta comportamenti opportunisti per prevenire rischi di contenziosi legali: prescrivono analisi, farmaci e ricoveri anche quando non servono.
Che i medici abbiano la coda di paglia lo si capisce dalle loro dichiarazioni: da una parte stigmatizzano il decreto ma dall’altra si dichiarano disponibili a “trattare” correggendo singoli punti, soprattutto preoccupati di evitare le sanzioni economiche anziché scendere in piazza per respingere questo inusitato attacco alla loro credibilità, al loro ruolo e alla loro autonomia.
Il decreto è il più formidabile atto di delegittimazione della professione medica e in particolare dei medici di medicina generale, che dalle indagini della Fnomceo, risultano coloro che più degli altri adottano comportamenti opportunisti, ma anche quelli che sul piano politico sindacale in questi anni si sono opposti più degli altri a qualsiasi ripensamento del loro status.
Questi medici preziosi e insostituibili ma anche nel loro complesso terribilmente corporativi (a un tempo con le libertà dei liberi professionisti e con le garanzie dei pubblici dipendenti), con il decreto sulle prestazioni inappropriate rischiano di diventare degli ossimori cioè dei liberi professionisti senza autonomia, quindi dei dipendenti di fatto ma che operano nei loro studi personali.
Nello stesso tempo è evidente che i camici bianchi rischiano di essere maciullati dal mai risolto problema del contenzioso legale e della responsabilità professionale. Sorprende a questo proposito che l’Istituto superiore di sanità abbia dato il via libera ad un provvedimento tanto discutibile quanto rischioso anche rispetto ai suoi profili di scientificità. Questa strana e inaspettata disponibilità da una parte spiega la divaricazione che c’è tra la medicina accademica e la medicina in trincea, cioè tra scienza e realtà, ma dall’altra spiega la compiacenza di un organismo scientifico nei confronti del ministero, che per gran parte è stato lottizzato con logiche tutt’altro che scientifiche e che oggi di fatto copre le scelte del ministero ma non i diritti dei malati e meno che mai un’idea umanizzata di medicina.
E il malato? E’ l’innocente che paga i vizi e gli errori degli altri. Egli deve avere la fortuna di rientrare dentro le regole di Stato ma se per ragioni genetiche personali situazionali o contingenti non vi rientra (il che è più comune di quello che si creda) egli o non riceve le cure appropriate o per avere cure appropriate deve pagare anche se la ragione per cui paga altro non è che il suo diritto.
Voglio ricordare a proposito di costi privati imposti ai malati, che nelle regioni, in particolare in Toscana, sono in atto strategie per spingere i cittadini, soprattutto per le prestazioni specialistiche, verso il privato. La Toscana si è accordata con il privato per far costare le prestazioni specialistiche meno del costo del ticket proprio per incentivare i malati a lasciare il pubblico.
Tornando al decreto sulle prestazioni inappropriate, la possibilità per il malato di rientrare nella regola prescrittiva dipende in genere dal grado di singolarità della sua malattia. Siccome l’appropriatezza prescrittiva del ministero non è in funzione del malato ma del risparmio, è facile prevedere che moltissimi malati saranno ingiustamente penalizzati, cioè la medicina di Stato per essere appropriata con la spesa sarà clinicamente inappropriata con il malato.
Mi chiedo cosa altro deve essere fatto contro i malati e le professioni, contro l’art 32 della Costituzione, per convincerci a dare corso ad uno sciopero generale del settore. Ormai la sanità pubblica è bombardata da tempo da una serie di atti controriformatori: contro il lavoro, con riordini regionali che distruggono ogni territorialità, con liste di attesa abnormi, servizi messi in ginocchio da anni di blocco del turn over, con regioni manifestamente immorali e incapaci di governare e con in più continui tagli lineari ai fabbisogni della nostra popolazione.
Naturale sarebbe dare seguito a uno sciopero generale della sanità per bloccare la controriforma e per ripensare il nostro sistema pubblico che ha bisogno di funzionare meglio, costare di meno e continuare a essere solidale e universale.

il manifesto 24.9.15
Sempre più italiani poveri vengono curati dai volontari della salute
Mentre il governo minaccia di tagliare l'erogazione di alcune prestazioni sanitarie, solo i medici volontari delle associazioni intercettano i pazienti che non possono permettersi di pagare le cure
"Ormai è evidente, l'Italia sta progressivamente smantellando il sistema sanitario nazionale", spiega un dottore di Medici Volontari Italiani
di Luca Fazio

MILANO Ci sono le statistiche sulla nuova povertà con le sue malattie, poi ci sono le persone. La realtà. Chiamiamolo Giovanni. Giovanni ha una dermatite atopica su tutto il corpo, ha cinquant’ anni, ha appena perso il lavoro. Non ha i soldi per curarsi, semplicemente perché le cure per le malattie della pelle sono già tutte a pagamento (tranne una, la psoriasi) e senza nemmeno bisogno dei nuovi tagli annunciati dal ministro Beatrice Lorenzin. “Non riesce a pagarsi le pomate, lo sto curando con dei bagni di amido, costa poco e la madre gli presta la vasca”, dice il dottor Sergio Santini dell’associazione Medici Volontari Italiani di Milano. Tanto per capire di cosa stiamo parlando quando si dice che milioni di italiani non hanno accesso alle cure e che l’Italia si sta apprestando a smantellare il sistema sanitario nazionale.
L’associazione ha un ambulatorio in viale Padova 104, una unità mobile che si piazza davanti alla Stazione Centrale o dietro al Duomo e un container di fronte alla onlus Pane Quotidiano di viale Toscana, dove ogni giorno duemila persone vanno a rimediare un panino per tirare avanti. Nel 2014 ha visitato 2.803 persone, tra cui 367 italiani. “Dal 2012 l’aumento degli italiani è stato piuttosto rapido, per contro la crisi ha spinto gli stranieri a trasferirsi altrove per cercare lavoro — spiega Sergio Santini — ormai è evidente che sono le associazioni di volontariato a prendersi cura degli italiani poveri”. Le povertà sono variamente assortite, “molti malati psichiatrici provenienti dal sud Italia, persone con patologie da freddo, con traumi minori o artrosi”. Il dato sull’utenza straniera preponderante però non deve trarre in inganno: molti stranieri vivono a Milano da decenni, invecchiano, difficile non considerarli italiani. “I medici lo sanno a cosa stiamo andando incontro — dice Sergio Santini — la sanità pubblica in Italia ha come obiettivo un taglio sulla salute da 10 miliardi di euro, non lo dichiarano apertamente ma Italia e Spagna devono progressivamente smantellare il sistema sanitario nazionale”.
Anche Emergency, dal 2006, offre gratuitamente prestazioni mediche in Italia. I presidi fissi sono diversi, quasi tutti al sud: Palermo, Marghera, Polistena, Reggio Calabria, Castelvolturno, Napoli e Bologna. In questi anni l’associazione ha erogato 200 mila prestazioni (circa 300 al giorno). Dallo scorso agosto funziona anche una unità mobile a Milano. Gli italiani sono circa il 6% del totale. “Negli ultimi anni sono aumentati — spiega Andrea Bellardinelli, coordinatore del Programma Italia — intercettiamo molte persone senza fissa dimora, sono i più vulnerabili, non hanno nemmeno la tessera sanitaria. Poi arrivano centinaia di telefonate di italiani che non ce la fanno a pagare il ticket, questo è un problema enorme che allontana i malati dalle cure. Molti decidono di curare solo i figli. Noi ovviamente non possiamo aiutarli, ma in questi casi è molto utile fare informazione per coprire le zone grigie del sistema sanitario nazionale”. Un ginepraio che spinge molti a rinunciare alle cure (ticket costosi, liste di attesa, esenzioni per i farmaci e in più le Regioni che recepiscono la materia sanitaria in maniera discrezionale). “E’ in atto la disgregazione del welfare in nome del mercato — dice Bellardinelli — la logica aziendale e la corruzione stanno sgretolando il sistema sanitario. Dobbiamo riportare al centro la persona e i suoi bisogni, una popolazione sana fa bene a tutti, la buona salute non è un costo è una risorsa”.
Restando a Milano, il capoluogo della regione che vanta uno dei sistemi sanitari più efficienti, fanno impressione i numeri delle prestazioni fornite dall’Opera San Francesco, “un colosso” della carità fondato nel 1959 dai frati cappuccini. Sono quasi quadruplicate: nel 1996 erano 10.957, sono state 40.188 nel 2014 (167 al giorno). Totale: più di 560 mila visite mediche. La voce che meglio racconta l’impoverimento della popolazione si riferisce alle cure odontoiatriche: le prestazioni dentistiche fornite dall’Osf da 1.703 sono diventate 5.573 all’anno. E dire che tra le prestazioni “inutili” a rischio erogazione comunicate dal governo ce ne sono 30 che riguardano proprio i denti degli italiani.

il manifesto 24.9.15
Tonino Aceti: «Renzi taglia le prestazioni sanitarie per finanziare l’abbattimento delle tasse»
Intervista al portavoce del Tribunale per i diritti del malato:
«Con il decreto sull'appropriatezza prescrittiva il governo intende reperire le risorse per il piano sulle tasse annunciato dal Presidente del Consiglio e scarica i costi sulle spalle dei cittadini e del Welfare»
«Questo decreto è inadeguato rispetto all’evoluzione della medicina contemporanea»
di Roberto Ciccarelli

ROMA Tonino Aceti, portavoce del tribunale per i diritti del malato-CittadinanzaAttiva, contesta l’esistenza di un’emergenza creata dall’eccesso di prestazioni sanitarie che costerebbe allo Stato 13 miliardi di euro all’anno. In base a questa cifra, il governo Renzi ha deciso di tagliare 208 prescrizioni considerate «esami inutili». «Parto da un dato incontestabile perché istituzionale – afferma Aceti — Nel 2014 per l’Istat il 9,5% della popolazione ha rinunciato a una prestazione sanitaria di cui aveva bisogno a causa delle lunghe liste di attesa, dell’inefficienza organizzativa e del costo dei ticket. Non è un fatto di poco conto: il dato è aumentato in un anno dello 0,5%. Nel 2013 riguardava il 9% dei cittadini. Questo allarme lanciato dalla ministra della Sanità Lorenzin per noi è esattamente l’opposto: in Italia esiste una difficoltà ad accedere alle prestazioni, non un loro eccesso».
Tonino Aceti, portavoce del Tribunale per i diritti del malato-CittadinanzaAttiva
Tonino Aceti, portavoce del Tribunale per i diritti del malato-CittadinanzaAttiva
Se è così perché il governo ha lanciato l’allarme?
Per fare cassa e finanziare l’abbattimento delle tasse annunciate dal presidente del Consiglio Renzi. Il decreto sull’appropriatezza è necessario per reperire le risorse, scaricando i costi sulle spalle dei cittadini e del Welfare. Le cose vanno chiamate con il loro nome: con la scusa di questo decreto si sta attuando una revisione dei livelli essenziali di assistenza e del paniere delle prestazioni del Sistema Sanitario nazionale.
Non crede che sia necessario migliorare l’appropriatezza delle prescrizioni?
Ma non si può aggredire questo problema con un decreto. Il miglioramento va promosso dal Sistema sanitario nazionale attraverso un piano strategico che preveda la formazione del personale, l’informazione indipendente dei professionisti, i protocolli diagnostici terapeutici assistenziali. Quello che è certo è che non si taglia l’assistenza come fa questo decreto. In un momento in cui aumenta la difficoltà di accesso alla sanità, i redditi sono sotto stress per la crisi, sarebbe necessario un sostegno al Welfare. Tra tagli alla sanità e decreti come questo invece si diminuiscono le tutele dei cittadini e dei pazienti.
Quali potrebbero essere le conseguenze del decreto?
Aprire un’autostrada ai privato e alle assicurazioni sulle salute. Con 208 prescrizioni vietate potrebbe essere lo stesso medico a consigliare al paziente di rivolgersi a loro. Il problema è che con i redditi che diminuiscono, e con la povertà che aumenta, aumenteranno anche le persone che scelgono di non curarsi perché non hanno i soldi per farlo.
Qual è il criterio usato nella scelta delle prestazioni da tagliare?
Questa operazione è scollata dalla realtà e inadeguata rispetto alle evoluzioni della medicina. Oggi si va sempre di più verso la medicina di genere e personalizzata. Non si capisce perché, in questo caso, il governo abbia scelto di standardizzare le prestazioni. Ogni cittadino è diverso e ha bisogno di prestazioni personalizzate. Questa decisione trasformerà i medici in burocrati amministrativi che dovranno eseguire le prestazioni nel rispetto di una tabella ministeriale. Se non lo farà, il medico è passibile di una sanzione. Dal punto di vista dell’etica professionale questo è gravissimo.
Come cambierà il rapporto tra il cittadino e il medico?
Si potrebbe innescare un più alto livello di conflittualità come già accade per l’accesso a alcuni farmaci gratuiti. Il medico si trova costretto, in alcune situazioni, a rifiutare la prescrizione. Il cittadino non accetta le sue motivazioni, si sente truffato e deluso dal Sistema sanitario Nazionale che gli ciò che gli serve e lo obbliga ad andare dal privato. Non si può escludere che la stessa cosa possa accadere con le prescrizioni e che il cittadino agisca contro il medico.
In tribunale?
Non lo escludo. Ci si potrebbe rivolgere al giudice per capire se il cittadino ha il diritto a una prestazione garantita dall’ordinamento costituzionale. Questa conflittualità potrebbe coinvolgere anche i direttori generali delle strutture sanitarie, anche loro colpiti dalle misure previste dal decreto.
I sindacati dei medici hanno annunciato l’intenzione di fare uno sciopero. Voi cosa farete?
Se il tema della mobilitazione sarà sul decreto e sui tagli alla sanità sosterremo la mobilitazione e ci attiveremo.

Repubblica 24.9.15
Primo via libera allo “Ius soli”
Accordo in commissione Affari costituzionali della Camera sulla riforma della cittadinanza
Ma ci sono nuovi vincoli legati al permesso di soggiorno dei genitori e alla frequenza di un ciclo scolastico
Critiche da Sel: “Compromesso al ribasso”. La Lega promette battaglia per non far approvare il testo in Aula
di Vladimiro Polchi

ROMA Primo via libera alla riforma della cittadinanza. Si sblocca l’impasse in commissione Affari costituzionali della Camera sul cosiddetto “ius soli soft”, grazie a un accordo tra la maggioranza. Impantanata da tempo in Parlamento e bersagliata da centinaia di emendamenti, la nuova cittadinanza fa dunque un passo avanti. Chi nasce in Italia sarà italiano? Dipende. Due emendamenti, presentati da Scelta civica e Ncd, pongono infatti nuovi vincoli: obbligo della frequenza di un ciclo scolastico e genitori con permesso di soggiorno di lunga durata.
La platea potenziale dei beneficiari della riforma è enorme: i minorenni stranieri oggi in Italia sono oltre 1 milione e ben 925.569 hanno una cittadinanza non comunitaria. Ma le nuove norme pongono limiti che rischiano di restringere il numero di bambini che potranno “vincere” un passaporto italiano. Il testo unificato mette infatti assieme i principi dello “ius soli temperato” e dello “ius culturae”. Cosa ne esce?
I bambini nati in Italia da genitori immigrati e tutti gli altri minorenni stranieri avranno finalmente un percorso agevolato, non senza alcuni paletti. L’accordo raggiunto dalla maggioranza modifica il testo base della relatrice Marilena Fabbri (Pd) e spinge il ddl verso la discussione in Aula già la prossima settimana. L’intesa si basa su due emendamenti, che introducono nuovi obblighi: la frequenza di un ciclo scolastico di almeno 5 anni da parte del bambino straniero nato in Italia (nel caso in cui la frequenza riguardi le scuole elementari, si dovrà aver superato l’esame finale) o il possesso da parte di uno dei genitori del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. I minori nati in Italia senza questi requisiti, e quelli arrivati in Italia sotto i 12 anni, potranno comunque ottenere la cittadinanza se avranno «frequentato regolarmente, per almeno cinque anni istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale». Infine i ragazzi arrivati tra i 12 e i 18 anni potranno avere la cittadinanza dopo aver risieduto nel Paese per almeno sei anni e aver frequentato «un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo».
Soddisfatta la maggioranza. Per il parlamentare Pd, Khalid Chaouki, si tratta di «una riforma importante per il futuro dell’Italia, che andava condivisa con il numero più ampio di forze politiche». Critiche, invece, da parte di Sel: «Un compromesso al ribasso — sostiene la deputata Celeste Costantino — che renderà più complicato richiedere la cittadinanza ». Promette battaglia il Carroccio: «Faremo battaglia in Aula — annuncia il leghista Cristian Invernizzi — per non far approvare il testo».

Il Fatto 23.9.15
Juncker: “Se ne accogliamo solo 120mila siamo ridicoli”
“Cifra minima rispetto all’emergenza” Ue, sì ai rifugiati. “Ma siamo ridicoli”
di Andrea Valdambrini

La distribuzione dei migranti sulla base di quote tra gli Stati dell’Unione passa attraverso gli hotspot. È questa la parola magica della politica europea. Oggi a Bruxelles, i capi di Stato e di governo dei 28 paesi si riuniscono per un vertice straordinario, convocato con pochi giorni di anticipo dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Sul tavolo i nodi che si trascinano ormai da mesi e su cui i ministri degli Interni ieri hanno preso decisioni importanti. Con un voto a maggioranza, a cui si sono opposte Ungheria, Romania, Repubblica Ceca e Slovacchia, mentre la Finlandia si è astenuta, è stata approvata la ripartizione di 120.000 migranti in arrivo in Grecia e Italia (anche se non dall’Ungheria, come era previsto in un primo momento). Il presidente della Commissione Juncker aveva lanciato un appello alla solidarietà, che sembra essere stato raccolto almeno sulla carta. “Se litighiamo per accoglierne solo questo numero, siamo ridicoli”, ha detto Juncker, ricordando che Giordania e Libano ospitano milioni di profughi. “120.000 in due anni è una cifra insufficiente. Le stime andranno riviste al più presto”, ha avvertito la portavoce Unhcr per l’Italia Carlotta Sami. Quanto agli hotspot, la parola d’ordine, dettata sostanzialmente dalla Merkel, è creare un meccanismo più eficiente per l’identificazione dei migranti che faciliti il riconoscimento dello status: richiedenti asilo o cosiddetti migranti economici. “In teoria i migranti dovrebbero già ora restare nella struttura di arrivo per un massimo di 4872 ore”, spiega l’eurodeputatosiciliano Ignazio Corrao. “In realtà c’è chi è nel limbo da 2 anni”. GLI HOTSPOT SONO PREVISTI nei 3 punti di maggior arrivo dell’area Schengen: Ungheria, Grecia e Italia. Da noi saranno usati i Centri d’identificazione ed espulsione (Cie) di Trapani, Pozzallo, Augusta, Lampedusa e il Centro per il soccorso e l’accoglienza di Porto Empedocle. Tutte le operazioni saranno svolte dalle autorità nazionali insieme ad agenzie europee. La preoccupazione, anche dopo l’ok che verrà dato oggi dai leader Ue, è nelle procedure all’interno degli hotspot. “Nulla garantisce che la burocrazia europea (Frontex, etc) sia davvero più efficace di quella nazionale”, osserva l’europarlamentare M5S Laura Ferrara. “E nessuno ha chiarito cosa succede ai migranti che non hanno diritto alla protezione. Vengono rimpatriati? E come si fa in assenza di accordi bilaterali con i Paesi di provenienza? ”. L’hotspot rischia così di essere un nome senza sostanza. “Perciò chiediamo che il processo si sposti presso ambasciate e centri più vicini ai luoghi di partenza dei richiedenti asilo”, conclude Ferrara. Intanto in Francia è stato pubblicata una guida del Routard di 90 pagine illustrate e senza parole, che verrà distribuito gratuitamente per aiutare i migranti nelle necessità più elementari del loro viaggio forzato.

Il Sole 24.9.15
Lo scontro sulle quote. Retaggi storici e gap economico
Tra Est e Ovest una spaccatura che viene da lontano
di Beda Romano

Non è chiaro se la spaccatura emersa martedì tra Est e Ovest dell’Unione si trasformerà in un braccio di ferro politico-legale, come minacciato da alcuni governi. Di sicuro, la decisione presa a maggioranza qualificata di ricollocare in Europa 120mila profughi arrivati dal Medio Oriente o dal Nord Africa ha messo in luce differenze storiche, culturali ed economiche a poco più di dieci anni dall’allargamento, forse non dissimili dal contrasto tra Est e Ovest in Germania.
Nell’incontro di due giorni fa, il provvedimento proposto dalla Commissione europea è stato approvato da tutti i ministri degli Interni coinvolti salvo cinque: Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania hanno votato contro la redistribuzione dei rifugiati, mentre la Finlandia si è astenuta. La vicenda può essere vista in due modi. Da un lato, come ha detto Pieter Cleppe del centro studi inglese Open Europe, «è pericoloso mettere in minoranza Paesi su un tema così delicato».
Dall’altro, la scelta di votare a maggioranza è anche il riflesso di una certa maturità. Piuttosto che annacquare qualsiasi provedimento a colpi di compromessi pur di avere il consenso di tutti, i governi hanno deciso di imboccare una strada impervia, ma che ha il merito della chiarezza. Da Bratislava, il premier slovacco Robert Fico ha spiegato ieri che prima di tutto il suo Paese farà ricorso dinanzi alla Corte europea di Giustizia, e che comunque «non applicherà il provvedimento».
Per tutta risposta, la Commissione europea ha ribadito che il provvedimento sarà applicato in toto. Dal canto suo, il premier ceco Bohuslav Sobotka, pur dicendosi contrario dalla redistribuzione dei profughi, ha spiegato che non intende fare ricorso contro la decisione. Anche la Romania, pur votando contro il provvedimento, ha detto che accoglierà i rifugiati che le spettano. Solo nei prossimi giorni e nelle prossime settimane si capirà la posizione dei Paesi refrattari.
C’è la difficoltà a mettere in pratica il provvedimento contro la volontà del Paese; ma gli stessi governi dell’Est Europa dovranno decidere se fare della questione un motivo di contrasto duraturo con il resto dell’Europa. Non solo l’accordo prevede scappatoie almeno temporanee; ma, per ora, l’intesa prevede che questi paesi accolgano in tutto appena 6.100 persone. Ciò detto, restano divergenze e recriminazioni, non dissimili da quelle che segnano (o forse, segnavano) il rapporto tra Wessi e Ossi in Germania.
A 10 anni dall’allargamento e a 25 anni dalla Caduta del Muro, questi Paesi tendono a pensare di essere ancora i parenti poveri rispetto ai ricchi partner occidentali e rifiutano quindi di accogliere profughi dal Medio Oriente. Si nasconde una forma di vittimismo, a cui da Ovest si risponde notando quanto aiuto i Paesi dell’Est Europa hanno ricevuto in questi anni. Tra il 2007 e il 2013, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania hanno ricevuto fondi europei in tutto per circa 81,5 miliardi di euro.
Al di là dell’aspetto economico, c’è anche l’aspetto sociale. I Paesi dell’Est hanno pochi immigrati, e soprattutto grosse difficoltà a gestire le comunità rom. In questo senso, in un articolo per Project Syndicate, il professore di Princeton Jan T. Gross sostiene che questi Paesi, più realisti del re durante la guerra, hanno partecipato in prima persona all’Olocausto. Mentre la Germania ha fatto un esame di coscienza, questi Stati non lo hanno fatto, e ora non riconoscono l’obbligo di aiutare profughi e rifugiati.
Più in generale, è interessante che in un rapporto del governo polacco del 2014 si tessano le lodi del Gruppo di Visegrad. Si fa notare che il consesso dei quattro Paesi (Polonia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca) ha lo stesso numero di voti nel Consiglio europeo della Germania e della Francia. È indicativo del modo combattivo in cui la regione affronta il rapporto con il resto dell’Europa, e conferma che al netto di eventuali ricorsi contro la scelta di redistribuzione dei profughi le incomprensioni non mancano.

Il Sole 24.9.15
Germania, la grande frode è un caso politico
Il ministro dei Trasporti tedesco Dobrindt (Csu) sotto accusa per l’interrogazione presentata a luglio dai Verdi
di Alessandro Merli

FRANCOFORTE Lo scandalo Volkswagen sta diventando uno scottante caso politico in Germania.
Il Governo federale è stato costretto ieri a smentire indiscrezioni di stampa secondo cui sarebbe stato al corrente della manipolazione delle emissioni dei motori diesel da parte della casa automobilistica di Wolfsburg ma la vicenda è destinata a creare non pochi grattacapi alla grande coalizione, mentre si è mossa per la prima volta la magistratura.
L’ufficio del procuratore di Braunschweig ha reso noto che sta valutando l’apertura di un’inchiesta formale che riguarderebbe i dipendenti della Volkswagen responsabili per le manipolazioni. Il ministro dei Trasporti, Alexander Dobrindt, ha inviato una commissione ministeriale d’indagine a Wolfsburg, dove anche la Volkswagen ha detto di voler avviare un’inchiesta affidata a esperti esterni. Ma è proprio Dobrindt, astro nascente dei cristiano-sociali bavaresi della Csu, finora noto soprattutto per avere dato del “falsario” al presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e per aver spinto per l’adozione di pedaggi autostradali da applicarsi solo agli stranieri, a trovarsi nel mirino dell’opposizione. Una sua risposta scritta, piuttosto fumosa, a un’interrogazione parlamentare dei Verdi lo scorso mese di luglio sulle discrepanze fra i risultati dei test sulle emissioni condotti in laboratorio e su strada, ha fatto sorgere il dubbio che il Governo sapesse degli interventi di Vw attraverso il software per alterare gli esiti. Anche nei giorni scorsi, al salone dell’auto di Francoforte, pressoché alla vigilia dello scoppio dello scandalo, esponenti dei Verdi avevano fatto riferimento alla questione, seppure senza nessuna indicazione di un coinvolgimento di Volkswagen.
Nella sua risposta, Dobrindt aveva poi rimandato all’azione della Commissione europea, che a sua volta sconta notevoli ritardi sulla materia e che ieri si è fatta sentire invitando tutti gli Stati membri dell’Unione europea a condurre indagini. Bruxelles si propone anche di coordinare le inchieste e favorire lo scambio di informazioni, una iniziativa piuttosto tardiva alla luce di quanto già emerso negli Stati Uniti.
Come sempre, il cancelliere Angela Merkel ha preferito mantenere inizialmente un basso profilo, limitandosi a sollecitare Volkswagen ad agire «il più rapidamente possibile» per ristabilire la fiducia. Il suo vice, e leader del partito socialdemocratico, Sigmar Gabriel, intervenendo a Francoforte ha definito quanto accaduto «inaccettabile» e suscettibile di creare «danni enormi». L’agenzia di rating Fitch, nel declassare a «negativa» la prospettiva del debito di Volkswagen, ha fatto riferimento proprio come fattore principale al «danno alla reputazione» della casa automobilistica che potrebbe pesare sul suo futuro.
I socialdemocratici sono del resto anch’essi in una posizione scomoda. È socialdemocratico il presidente del Land della Bassa Sassonia, Stephan Weil, che attraverso il 20% del capitale di Volkswagen può esercitare una notevole influenza negli affari del gruppo. E sono esponenti della Spd i due sindacalisti con un ruolo chiave nel consiglio di sorveglianza: Berthold Huber, già capo del potente sindacato dei metalmeccanici Ig Metall, che si è ritrovato dall’aprile scorso presidente a interim del consiglio di sorveglianza dopo l’estromissione di Ferdinand Piech, che fu sconfitto nel braccio di ferro con l’amministratore delegato Martin Winterkorn; e Bernd Osterloh, anche lui componente del presidium del consiglio di sorveglianza che ieri ha ricevuto, e probabilmente sollecitato, le dimissioni dello stesso Winterkorn. Del quale sia i sindacalisti, sia il governo regionale erano stati sostenitori nella faida con Piech, una posizione destinata ora a creare non poco imbarazzo.

Il Sole 24.9.15
I mali tedeschi
Quell’intreccio pericoloso tra politica e economia
di Alessandro Merli

Angela Merkel è un tipo cauto.
Fino alla paralisi decisionale, dicono i critici della cancelliera tedesca. La verità è che le è congeniale, da scienziatadi formazione, valutare i pro e i contro prima di pronunciarsi. E prima di muoversi, a volte con un passetto quasi impercettibile. Sono rari i casi in cui contraddice questo modus operandi: lo ha fatto per l’addio al nucleare dopo Fukushima e per l’apertura ai rifugiati nelle scorse settimane, due vicende di enorme impatto emotivo sull’opinione pubblica. In entrambi i casi, ha poi avuto modo di pentirsi di non aver soppesato fino in fondo le conseguenze, ma non per questo ha fatto marcia indietro.
Sullo scandalo Volkswagen, si è limitata per ora a una laconica battuta: bisogna muoversi «al più presto» per ristabilire la fiducia. Sa benissimo che non è uno scandalo come un altro, come quelli che pure i tedeschi, benché adoratori delle regole, non si fanno scrupolo di minimizzare e spazzare sotto il tappeto, dalla Deutsche Post alla Siemens, da quelli seriali della Deutsche Bank a quelli permanenti delle banche pubbliche.
Stavolta, c’è di mezzo il più grande gruppo industriale del Paese, l’emblema stesso del made in Germany. Un made in Germany che ha costruito nei decenni una immagine di affidabilità e competenza, immagine che, proprio per la posizione centrale di Volkswagen nel sistema, difficilmente non sarà scalfita dallo scandalo delle emissioni truccate. Anche se è stata costruita nei decenni, e dal lavoro eccellente di centinaia di imprese.
È questo che più di tutto preoccupa la signora Merkel: l'impatto non tanto sui conti, o sulla quotazione di Borsa di Volkswagen, ma il colpo inferto a una storia e a una reputazione non solo del gruppo di Wolfsburg, ma del resto dell'industria, e, diciamolo pure, del Paese, viste le implicazioni globali della vicenda. Per di più stiamo parlando della vacca sacra dell'industria e dell'oggetto che più di tutti sta nel cuore dei tedeschi: l'auto. Un settore per il quale il cancelliere non ha esitato a spendersi in prima persona, creando uno scontro europeo di non poco conto, nel 2013, proprio sulla questione delle emissioni. E del quale il principale lobbista è un ex politico di spicco, guarda caso del partito della signora Merkel. Un settore che peraltro dà lavoro a quasi 800mila persone e per il quale il capo del Governo sarà disposto a battersi ancora.
Quel che però la signora Merkel non ha detto, e probabilmente non dirà, e che non è uscito finora nel dibattito in Germania dopo la prima reazione esterrefatta a una vicenda fino a una settimana fa ritenuta impensabile, è che al cuore della vicenda, ma in fondo al cuore del sistema, c'è un intreccio fra politica ed economia che mina dal di dentro i totem di affidabilità e rispettabilità dell'industria e della società tedesca.
Le decisioni sbagliate alla Vw sono state prese dal management (“Non sono consapevole di aver fatto nulla di sbagliato”: il commiato dell'amministratore delegato, Martin Winterkorn, fa pensare al miglior Scajola), ma il ruolo del Governo locale e dei sindacati nella (mancata) sorveglianza è così importante, alla Volskwagen e in genere nelle imprese nazionali, da far pensare che troppo facilmente si possa scivolare nel sistema tedesco dalla cogestione al consociativismo alla connivenza. Lo scandalo Volkswagen è il più clamoroso, ma l'esempio più deteriore sono le malefatte del sistema delle banche pubbliche, dove la commistione fra politica e affari è incancrenita da decenni, e che si susseguono senza che nessuno si sia stracciato le vesti. Anzi, la politica tedesca ha fatto di tutto perché l'Europa, nella veste della nuova vigilanza della Banca centrale europea, non ci mettesse il naso.
Questo consociativismo ha alzato la soglia di tolleranza per una serie di comportamenti che in Germania si appare disposti ad accettare e anche a coprire fin quando il bubbone non viene a galla. Ma per un colosso come Volkswagen c'è stato bisogno dell'intervento delle autorità americane.
In Germania, poi, l'estrema riluttanza ad ammettere i propri errori si concilia male con la facilità a far la morale sulle colpe altrui, tante volte esercitata in Europa. Difficile dire oggi se lo scandalo Volkswagen lascerà il segno sulla psicologia nazionale.

Il Fatto 23.9.15
Il Maggiolino tutto matto figlio dell’auto di Hitler
La parabola del colosso: durante la Seconda guerra mondiale forniva le SS, poi inventò macchine che sono pezzi di storia
di Leonardo Coen

Ebbene, lo confesso, ho avuto anch’io un Maggiolino Volkswagen color verde militare, con tettuccio apribile a manovella e il lunotto posteriore “ovalino”. Di terza mano, con più di 200mila chilometri sul groppone. Consumava come un camion, era lento come un paracarro, aveva un cruscotto di metallo che spartano è dir tanto. Anacronistico in tutto. Però dava l’impressione di essere tanto semplice quanto indistruttibile. Ed era simpatico. Suscitava infatti un ribollire di sensazioni piacevoli, tipo Herbie il maggiolino tutto matto della Walt Disney. Era soprattutto il simbolo (pacifico) a quattro ruote della Germania, rappresentava la sua riscossa industriale, incarnava quei valori che sarebbero diventati peculiari del made in Germany: affidabilità, serietà, correttezza. Gli stessi che i tedeschi hanno vantato umiliando il premier Alexis Tsipras e la Grecia...
MIO PADRE detestava la Volskwagen, “altro che vettura del popolo” borbottava sempre, gli ricordava i rastrellamenti, le SS a bordo della Kubelwagen, la versione militare del primo Maggiolino. La berlina, per la sua forma, era stata ribattezzata Käfer, coleottero. Nel 1934 il Führer aveva annunciato con demagogico fervore che l’automobile non doveva essere più un privilegio: promise che ogni famiglia avrebbe avuto la possibilità di possederne una a mille Reichsmark. Otto mensilità di un operaio. Una vettura per cinque passeggeri, risparmiosa (7 litri ogni 100 chilometri), dignitosamente veloce (più di cento all’ora). Nel 1936 l’auto per tutti divenne realtà. Non solo. Hitler ne pretese un uso militare, capace cioè di trasportare tre soldati, i loro equipaggiamenti e un grosso mitragliatore. Il progetto vincente fu dell’ingegnere Ferdinand Porsche. Il primo modello uscì dalla neonata fabbrica di Wolfsburg nel 1937, la produzione vera e propria cominciò nel 1938, la guerra mandò all’aria tutto. La riconversione bellica propose veicoli come l’anfibia Schwimmwagen a trazione integrale e con l’elica.
I bombardamenti rasero al suolo la fabbrica, ma molti macchinari erano stati nascosti nelle campagne e fu un maggiore inglese a convincere gli Alleati, vantando le robuste qualità della Typ 1, che sarebbe convenuto riavviarne la produzione, sia pure in emergenza. Così fu. La storia della Volkswagen per un trentennio si confuse con quella del Maggiolino. Quella che nella comunicazione industriale viene definita Case History, dove la storia del prodotto e dell’impresa è intesa come patrimonio etico e forza del brand, la sua reputazione e la sua esperienza. La VW fabbricò 21.529.464 esemplari di Maggiolini, dal 1938 al 2003, diventando l’auto più longeva del mondo e diventando la quarta automobile “più influente del XX secolo”. Un californiano donò al museo di Wolfsburg il suo instancabile Maggiolino: aveva percorso 2.562.885 chilometri,  un record imbattuto. Sull’onda del successo planetario la Volkswagen nel 1974 ruppe con il mito del Maggiolino e propose la Golf. Che sbaragliò ogni statistica di mercato: oltre 31 milioni. In Italia, 2,5. L’azienda di Wolfsburg nel 2014 è diventata la numero uno del mondo, la contiguità col governo il 20 per cento delle sue azioni sono del Länder della Bassa Sassonia ha consentito negli ultimi quindici anni grosse protezioni, sia finanziarie che in tema di obblighi europei. Ha aggregato marchi prestigiosi (spesso salvati dal fallimento, grazie all’iniezione di liquidità e know-how): Audi, Bentley, Bugatti, Lamborghini e Porsche (quest’ultima al termine di una virulenta battaglia azionaria), ma anche Seat, Skoda. In Giappone controlla il 19,9% di Suzuki. In Cina ha due importanti joint-ventures. I numeri sono da spavento: più di 100 impianti in 27 paesi, 583 mila dipendenti, 10,14 milioni di veicoli prodotti nel 2014 con un fatturato di 202 miliardi e utili per 10,84 miliardi.
ALL’APERTURA del Salone di Francoforte, il numero uno della VW aveva esordito: “Ora per andare oltre dobbiamo inventare qualcosa di nuovo”. Il danno di immagine colpisce la VW e la Germania tutta. Scalfisce pesantemente mito e tradizione di un Paese che si ergeva sugli altri per la sua rettitudine finanziaria ed industriale. Povera Angela Merkel. Oggi, parlare di Volkswagen infonde lo stesso ottimismo di un salice piangente.

Il Fatto 23.9.15
“Renzi ha partecipato al golpe Ora faccio la sinistra europea”
Ho lasciato Syriza, Tsipras è saggio ma temo che il suo nuovo governo
sia costretto a ripetere errori imposti da altri
di Yanis Vaeoufakis

Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, si è rallegrato di essersi “liberato di me”, interpretando la mia uscita di scena come un segno che gli apostati (cioè a dire quanti dividono i loro partiti) vengono gettati a mare. La sua è una motivata illusione. Lo scorso luglio “loro” si “sono liberati” di qualcosa molto più importante di me, si sono liberati della loro stessa integrità. Ma Renzi mi dipinge come un apostata che ha abbandonato Syriza e ora si trova nel deserto politico. La verità è portatrice di maggiori spunti di riflessione. A differenza di molti miei compagni, sono rimasto fedele alla piattaforma di Syriza con la quale il 25 gennaio scorso siamo stati eletti in quanto partito unito e capace di suscitare speranza nei greci e nei popoli europei. Speranza di cosa? Speranza che avesse definitivamente fine il tira e molla dei prestiti di bailout che sono costati caro all’Europa e che hanno condannato la Grecia a una depressione permanente e hanno anticipato politiche fallimentari nel resto del continente.
COSA È ACCADUTO? Con estrema durezza da parte dei leader europei, compreso Matteo Renzi (che si è rifiutato di discutere in maniera ragionevole le proposte della Grecia) il mio primo ministro, Alexis Tsipras, il 12 e 13 luglio ha dovuto subire un insopportabile bullismo, autentici ricatti e pressioni inumane. Matteo Renzi ha svolto un ruolo centrale nel contribuire a piegare Tsipras con la tattica del poliziotto buono che ti si avvicina e ti dice “se non cedi, ti distruggono. Ti prego, accetta le loro proposte”. Alexis e io ci siamo divisi sull’ipotesi che si potesse trattare o meno di un bluff e, in ogni caso, sul nostro diritto morale e politico di firmare l’ennesimo accordo non percorribile consegnando le chiavi di ciò che resta dello Stato greco a una troika spietata. Questa è stata, ed è tuttora, la divergenza tra Alexis e me. A seguito della divergenza, Alexis ha imposto una conversione a U alla politica di Syriza in ordine al tira e molla dei prestiti (accettandoli per la prima volta nella storia di Syriza come un male necessario) e, di conseguenza, molti esponenti del partito hanno deciso che non potevano seguirlo su questa strada. E a uscire dal partito non è stata solamente la corrente di Unità popolare. Sono state anche persone come Tasos Koronakis, segretario del partito, io e molti altri che non hanno mai condiviso il programma politico di Unità popolare. Non eravamo apostati – solo compagni che rifiutavano l’idea che Syriza diventasse il nuovo Pasok, il partito socialista, che non volevano entrare nei ranghi degli scissionisti come Unità popolare e hanno preferito non partecipare a queste tristi elezioni parlamentari che non potevano–e così è stato, dare vita a un Parlamento in grado di attuare un realizzabile programma di riforme in Grecia. Ma Tspiras non è come Renzi. Alexis è saggio. Quello a cui deve stare attento sono gli insidiosi processi che possono portare a una trasformazione quando si consentono politiche non fattibili, volute da burocrati senza volto di Bruxelles e Francoforte, con l’unico obiettivo di mantenere la loro autorità.
A PROPOSITO di Renzi. Ho un messaggio il premier italiano: può rallegrarsi quanto vuole del fatto che non sono più ministro delle Finanze e che non faccio parte del Parlamento. Ma lei non si è liberato di me. Sotto il profilo politico sono vivo e vegeto come mi ricorda la gente in Italia quando cammino per le strade del vostro bel Paese. Partecipando lo scorso luglio all’ignobile golpe contro Alexis Tsipras e la democrazia greca, si è liberato della sua integrità di democratico europeo. E forse anche della sua anima. Per fortuna la cosa non è irreversibile. Ma deve porre mano a profondi cambiamenti. Non vedo l’ora di vederla rientrare nei ranghi dei democratici europei.
Il problema delle richieste della cancelliera Merkel è che non sono implementabili.
Questo è un paradosso che, di nuovo, Matteo Renzi conosce molto bene: i governi di Italia, Francia, Grecia e non solo sono forzati a scontrarsi o contro le “volontà” stabilite o con... la realtà. E da quando la realtà è spietata, il risultato è una crisi irrisolvibile. Temo che il nuovo governo greco non possa che continuare con l’auto-alimentata crisi del debito. E questo non perché Tsipras lo voglia, ma perché quando sei obbligato a seguire le stesse ricette finirai con gli stessi risultati, indipendentemente dai tuoi desideri.
HO IMPARATO una cosa quest’anno, abbiamo bisogno di un movimento paneuropeo per democratizzare l’eurozona. I nostri partiti nazionali non possono farlo né attraverso la politica nazionale, né con deboli alleanze al livello del Parlamento europeo. Abbiamo bisogno di una rete paneuropea con un obiettivo semplice: democratizzare l’euro! Questo è quello di cui ha disperato bisogno l’Europa oggi. A questo sto lavorando assieme a molti altri in tutta Europa. Quindi sì, continuerò a far politica in Grecia e in Europa.
(a cura di Carlo A. Biscotto e Cosimo Caridi)


il manifesto 24.9.15
Ragazza di Hebron uccisa, non regge la legittima difesa
Cisgiordania occupata. Hadil Hashlamoun, 18 anni, uccisa due giorni fa a un posto di blocco israeliano aveva davvero tentato di accoltellare un soldato o il militare ha aperto il fuoco su una persona che non rappresentava una minaccia reale?
di Michele Giorgio

La 18enne palestinese Hadil Hashlamoun, uccisa due giorni fa ad un posto di blocco israeliano tra le zone H1 e H2 di Hebron, aveva davvero tentato di accoltellare un soldato o il militare ha aperto il fuoco su una persona che non rappresentava una minaccia reale? L’interrogativo, sorto subito dopo il diffondersi della notizia, si è fatto ancora più pressante quando in rete sono cominciate a circolare foto e un video che non mostrano la ragazza in atteggiamenti aggressivi. Un portavoce dell’esercito ha spiegato che ad Hashlamoun è stato ordinato di fermarsi dopo che aveva passato il metal detector. La ragazza invece di rallentare è andata avanti e ad un certo punto ha tirato fuori un coltello minacciando un militare. I soldati presenti hanno sparato prima alle gambe e ai piedi per impedirle di avanzare e quando la giovane ha continuato a dirigersi verso di loro le hanno sparato all’addome. Alcuni testimoni parlano invece di una “reazione eccessiva” a una minaccia percepita ma non vera e che, in ogni caso, non c’era bisogno di uccidere Hashlamoun.
Le immagini disponibili mostrano i soldati che puntano le armi verso una persona con il niqab (il velo islamico integrale) ferma al checkpoint prima della sparatoria e la stessa persona che, in apparenza, cerca di lasciare il posto di blocco. In nessuna delle foto la donna appare con armi in mano. Secondo Fawaz Abu Aisheh, uno dei testimoni, Hashlamoun non comprendeva le intimazioni in ebraico urlate dai soldati. Lo stesso Abu Aishe ha detto di aver aperto una porta per permettere alla ragazza di tornare indietro ma i soldati hanno sparato. «Quella ragazza avrebbe dovuto saltare una barriera alta circa un metro per raggiungere un soldato», ha spiegato il testimone. «Erano presenti sei o sette militari con armi pesanti. Non c’era bisogno di questo assassinio».
L’Esercito afferma inoltre che i medici israeliani hanno cercato di fare il possibile per tenere in vita la donna, sul luogo stesso della sparatoria prima del trasferimento in ospedale (dove è poi spirata). Un video pubblicato da un’agenzia di stampa locale dice il contrario. Il filmato mostra la donna che viene lasciata a sanguinare sul terreno – per circa 30 minuti – e che poi viene trascinata via da alcuni soldati. Sempre due giorni fa un altro palestinese è rimasto ucciso in una esplosione nei pressi di un villaggio vicino Hebron. Per il portavoce militare stava cercando di lanciare un ordigno. I palestinesi non confermano.

Repubblica 24.9.15
“Ecco l’orgoglio e il pregiudizio della Tunisia”
Nel nuovo romanzo Azza Filali racconta il suo paese alla vigilia della rivoluzione dei gelsomini
di Fabio Gambaro

Un attimo prima della rivoluzione, sul bordo del precipizio. Nelle pagine di “Ouatann ombre sul mare” (traduzione di Maurizio Ferrara, Fazi), Azza Filali racconta la Tunisia immediatamente precedente alla rivoluzione dei gelsomini. Un paese dominato dalle diseguaglianze sociali, dagli abusi e dalla corruzioni dove non è facile prendere in mano il proprio destino. E per restituire la complessità di quel mondo in bilico la scrittrice tunisina segue i percorsi tortuosi di alcuni personaggi che, alle prese con una svolta cruciale della loro vita, convergono tutti in una grande casa affacciata sul mare. Una avvocatessa che non vuole più difendere i corrotti. Un uomo cinico che pensa solo al denaro. Un ex carcerato che deve decidere se abbandonare il passato criminale. Un giovane che vuole arricchirsi con il traffico d’immigrati clandestini. La
scrittrice tunisina intreccia i loro destini con grande maestria, costruendo un romanzo profondo e avvincente che si legge quasi come un noir esistenziale. « Ouatann esprime il malessere da cui è nata la rivoluzione del 2011, malessere sociale e malessere individuale», spiega Azza Filali. «In Tunisia c’era un’atmosfera tesa, la gente non si parlava, dominava il sospetto reciproco. Percepivo questa atmosfera senza prospettive e senza punti di riferimento, in cui la speranza di un cambiamento coesisteva con l’impossibilità di sfuggire al proprio destino. Da lì è nato il romanzo».
Lo sconcerto dell’autore di fronte alla società in cui vive?
«Quando scrivo parto sempre dalle mie sensazioni, da un vissuto non ancora razionalizzato. Nel vissuto da cui è nato questo libro c’erano molte traiettorie spezzate, molta disperazione e sgomento, ma anche molta speranza e molte attese. Ma, più che gli avvenimenti, mi interessavano gli individui, la loro sensibilità, le loro scelte».
Mickhat, la protagonista, è una donna che si sta cercando...
«Rappresenta una parte delle donne tunisine. La loro evoluzione negli ultimi anni è stata molto significativa. Hanno conquistato diritti che ora cercano di esercitare. Ma, dato che la mentalità degli uomini è invece rimasta la stessa del passato, ne sono nati innumerevoli conflitti. Molte donne tunisine indipendenti devono gestire da sole la loro vita, perché gli uomini hanno paura della loro liberazione. Occorreranno almeno tre o quattro generazioni prima che la loro condizione divenga naturale».
La casa in cui si svolge il romanzo sembra una metafora della Tunisia.
«È proprio così. Come la Tunisia, in passato è stata abitata da un francese, che vi ha lasciato un’eredità nascosta. È una casa con molti nascondigli e angoli bui, come l’anima dei tunisini».
Alcuni protagonisti del romanzo, pensando all’Europa, hanno l’impressione di essere nati «dalla parte sbagliata della geografia»...
«Nonostante la rivoluzione, l’emigrazione clandestina continua ad aumentare. Dato che la rivoluzione politica non ha ancora prodotto trasformazione sociale, molti giovani tunisini continuano a desiderare un altrove al contempo reale e simbolico. Conoscono i rischi della traversata del Mediterraneo, come pure le difficoltà che gli immigrati incontrano in Europa, eppure continuano a partire spinti da un desiderio irrazionale. Solo un radicale cambiamento sociale e culturale potrà fermarli».
I giovani sono insensibili al “ouatann”, vale a dire la patria, i valori, la tradizioni...
«Non capiscono che un paese economicamente disastrato non si trasforma in poco tempo. Da qui il sogno della fuga, ma anche la tentazione dell’islamismo radicale, nei cui ranghi hanno l’impressione di dare un senso al vuote delle loro vite».
Di fronte a questa situazione, la letteratura può contribuire all’evoluzione del paese?
«A condizione che la gente legga. La scrittura romanzesca è creatrice di mondi, apre nuovi orizzonti. Può quindi indicare alcuni percorsi per guardare la vita diversamente».
Ma il tempo della letteratura può accordarsi con quello della storia?
«I due tempi sono sempre sfasati. Il tempo della storia corre e non si ferma mai, mentre quello della letteratura procede lentamente, arrivando sempre dopo. Il vissuto dello scrittore ha bisogno di sedimentare. La letteratura infatti non deve essere la semplice messinscena della storia. La letteratura deve emanciparsi dalla storia».
La vittoria della rivoluzione e i cambiamenti intervenuti nella società tunisina hanno trasformato il suo modo di scrivere?
«Continuo a scrivere con lo stesso ritmo, lo stesso stile, lo stesso approccio che non è mai diretto e militante, ma sempre un po’ laterale, privilegiando le sfumature. È cambiato invece il mio rapporto con la parola pubblica. La libertà d’espressione è una conquista formidabile».
«Quando l’onore ritorna, il paese sorge nell’animo degli uomini », dice uno de personaggi di “Ouatann”... È quello che sta accadendo oggi in Tunisia?
«Abbiamo ritrovato l’onore, quindi, nonostante la miseria, la disoccupazione, il terrorismo e mille altri problemi, abbiamo ritrovato la fiducia in noi stessi. Oggi abbiamo una repubblica, una nuova costituzione più laica della precedente. Anche le tensioni tra il mondo islamico e il mondo laico vanno attenuandosi. Anche se la strada da fare è ancora molta, i progressi sono indiscutibili. Motivo per cui io resto ottimista ».
IL LIBRO Ouatann ombre sul mare di Azza Filali (Fazi, traduzione di Maurizio Ferrara, pagg. 263 euro 17,50) Nella foto in basso la scrittrice tunisina Azza Filali nata nel 1952

Corriere 24.9.15
Evoluzione della Cia La nuova forza armata
risponde Sergio Romano

Seguo su «Arte», una rete tv franco-tedesca, un programma incentrato sull’attività della Cia dal tempo dalla Seconda guerra mondiale a oggi. Una rete spionistica alla quale sembra che tutto fosse permesso con la scusa di combattere il comunismo; e ci si chiede se il suo illimitato potere fosse al servizio del presidente oppure se fosse fine a se stesso. Il silenzio sulle sue attività copre responsabilità civili e morali di immensa portata e le chiedo quale sia il suo giudizio sulla Cia e sulle sue attività, in danno anche di governi che si ritenevano e si ritengono alleati degli Stati Uniti.
Nerio Fornasier

Caro Fornasier,
Il predecessore della Cia si chiamava Oss (Organizzazione dei servizi strategici), una denominazione volutamente vaga che copriva una larga gamma di operazioni possibili. Il nuovo organismo nacque nel 1947 e uno dei suoi primi compiti fu l’analisi della situazione politica italiana alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1948. Se il Pci avesse vinto, la Cia non si sarebbe limitata a raccogliere «intelligence». Avrebbe dato per scontato lo scoppio di una guerra civile e avrebbe operato sul terreno fornendo al fronte anti-comunista armi e denaro. L’obiettivo era evitare che l’Italia precipitasse in una situazione simile a quella che aveva sconvolto la Grecia sino a qualche mese prima. Sin dagli inizi, quindi, la Cia è una organizzazione in cui la frontiera tra spionaggio e impiego della forza su larga scala è scritta sulla sabbia. Ne avemmo una dimostrazione nell’aprile del 1961 quando apprendemmo dalla stampa americana che in un piccolo Paese dell’America centrale la Cia stava addestrando un corpo militare. Erano gli esuli cubani che di lì a poco sarebbero sbarcati sulle coste dell’isola per tentarne la conquista. L’operazione fallì, ma questo non impedì alla Cia di continuare a rafforzare il suo dispositivo militare.
Anche la sua attività di intelligence, nel frattempo, andava di pari passo con lo sviluppo delle nuove tecnologie e cominciava a suscitare parecchie perplessità. Nel 1975 una Commissione del Senato, presieduta dal senatore Frank Church, sottopose la Cia a una sorta di radiografia e denunciò il rischio di crescenti interferenze nella vita privata dei cittadini americani. Uno dei risultati della Commissione fu l’ordinanza del presidente Ford che proibiva gli omicidi «sponsorizzati» di leader politici stranieri.
Tutti i limiti e i freni richiesti dalla Commissione Church furono rimessi in discussione dagli attentati dell’11 settembre. La Cia e la Fbi colsero l’occasione per recuperare le prerogative perdute; e anche in questa fase le nuove tecnologie hanno moltiplicato le ambizioni. Negli anni seguenti, soprattutto in Afghanistan e in Iraq, la Cia ha assunto le dimensioni di un’Arma combattente, la quinta dopo l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica e i Marines. Non conosciamo il suo bilancio e il suo organico, protetti dal segreto di Stato, ma comprendiamo meglio le ragioni per cui gli Stati Uniti si sono rifiutati di ratificare il Trattato penale internazionale. Molti dei loro agenti sparsi per il mondo correrebbero il rischio di essere chiamati in giudizio.

Il Sole 24.9.15
La possibile alleanza tra dollaro e renminbi
di Donato Masciandaro

La visita del presidente cinese Xi Jinping negli Stati Uniti sarà sicuramente occasione per considerare, più o meno ufficialmente, i rapporti tra il dollaro e il renminbi. I due Paesi hanno un problema comune – l’assenza di una bussola monetaria – che alimenta due squilibri: l'eccesso di finanza e l’instabilità valutaria.
Sarebbe nell’interesse di entrambe le nazioni oltre che dell’economia mondiale definire chiare strategie monetarie. L’ostacolo è rappresentato dal fatto che in entrambi i paesi le banche centrali sono fortemente condizionabili dalla politica, per cui hanno difficoltà ad intraprendere politiche monetarie di ampio respiro.
In un momento di forte incertezza sugli sviluppi dell’economia internazionale, che si intreccia con una continua turbolenza sui mercati monetari e finanziari, un incontro tra i vertici di Stati Uniti e Cina dovrebbe essere una occasione preziosa per discutere i rapporti tra l’andamento delle rispettive valute: dollaro e renminbi. Un andamento che oggi è al contempo sempre più rilevante, ma caratterizzato da forti incognite. La rilevanza nasce dal fatto che se il dollaro è oggi la maggiore valuta di riserva del mondo, è anche vero che il renminbi si vuol candidare a prenderne il posto in un futuro non troppo lontano. Il renminbi vuol prima affiancare il quartetto valutario – dollaro, euro, yen e sterlina che oggi viene considerato rappresentare il paniere delle valute di riserve, per poi provare ad assumere una posizione via via crescente, se non dominante.
La ricerca da parte delle autorità cinesi di far assumere al renminbi lo status di valuta di riserva ha motivazioni che sono insieme economiche e politiche. La motivazione economica nasce dal fatto che la moneta è debito dello Stato a tasso zero; chi la detiene lo fa per ragioni diverse da quelle legate al rendimento nominale. Per cui più sono le famiglie e le imprese che vogliono detenere moneta, più lo Stato la potrà emettere, finanziandosi a costo zero. Per cui, quando più il renminbi assume il ruolo di valuta internazionale, tanto più ne aumenta la domanda, aumentando i gradi di libertà delle autorità cinesi nel manovrare il proprio debito a tasso zero.
Certo avere una moneta nazionale che è anche valuta internazionale non è una rosa senza spine. La domanda internazionale della valuta può creare pressioni non compatibili con gli equilibri nazionali: si pensi ad esempio ad una situazione in cui una crescita della domanda internazionale della valuta spinga tassi di cambio e tassi di interesse verso l’alto, in un momento di ristagno economico. Ma agli occhi dei politici – e le autorità cinesi non fanno eccezione – le spine tendono ad essere un costo eventuale e posticipato, mentre la rosa è sicura ed attuale. Per cui, i vantaggi politici di avere una moneta nazionale con lo status di valuta di riserva appaiono maggiori degli eventuali costi economici.
Ma perché il renminbi possa percorrere la rotta che la porti a divenire valuta internazionale occorre che siano attive almeno due bussole monetarie. La prima è legata al rispetto della “regola del trilemma”: in una economia di mercato, la politica monetaria può essere indipendente, se i capitali finanziari sono mobili ed i tassi di cambio flessibili. La Cina ha iniziato questo percorso, e lo scorso undici agosto ha annunziato di voler attuare un cambiamento significativo in tal senso: tassi di cambi sempre più flessibili, meno dirigismo nei movimenti dei capitali. Ma oggi la Cina è ancora in pieno guado: vi è incertezza sui tempi ed i modi in cui la regola del trilemma verrà davvero applicata, e questo zavorra tutto il processo.
Allo stesso modo, occorre che una seconda bussola monetaria guidi la navigazione: perché la politica monetaria sia credibile, occorre che venga messa in atto da una banca centrale indipendente dal governo, che allo stesso modo segua una regola monetaria, rispetto a cui render conto. Qui la Cina è ancor più lontana dal traguardo, visto che la sua banca centrale è nei fatti un dipartimento di politica economica del governo, ed il disegno della politica monetaria ancora subalterno alla gestione politica del tasso di cambio e dei movimenti dei capitali.
L’assenza di regole monetarie ha due effetti tossici endemici che in Occidente ben conosciamo, anche se tendiamo sistematicamente a dimenticare: il disordine monetario e/o valutario, l’eccesso finanziario. In questi mesi anche la Cina ha avuto modo di conoscere da vicino queste due tossine.
Certo la trasformazione del renminbi in una valuta disciplinata dalle bussole monetarie sarebbe più facile se tali bussole fossero pienamente attive negli Stati Uniti, che come ricordavamo è oggi il maggior produttore della valuta di riserva. In linea di principio, infatti, se ogni paese disegna ed implementa politiche monetarie, e quindi di riflesso andamenti valutari, coerenti con le bussole, il coordinamento diviene più facile.
Oggi però tale principio è impossibile da verificare, o da smentire, per l’assenza di una bussola monetaria anche negli Stati Uniti. La banca centrale americana (FED) continua a navigare a vista, ed ogni sua decisione è catalizzatore di maggiore incertezza, con i relativi costi economici e finanziari. Purtroppo l’assenza di bussole monetarie è oggi funzionale agli interessi di una banca centrale, che, in quando dipendente dalla politica, anche a causa del suo generico mandato, non può che essere condizionata dal clima di avvicinamento alle elezioni presidenziali, per cui l’inerzia monetaria cioè l’assenza di regola, non insignificanti cambi di tasso di interesse – sarà trascinata il più possibile.
Dollaro e renminbi avrebbero bisogno di regole monetarie; sarebbe una naturale alleanza, con benefici a raggiera e progressivi, a partire da Stati Uniti e Cina, in termini di minor incertezza. Certo, in entrambi i contesti, gli interessi di breve periodo del controllo politico su moneta e valuta dovrebbero essere sacrificati. Per un politico, significa spine oggi e rosa domani. Lo farà?

Repubblica 24.9.15
I padroni della Rete alla corte di Xi
Da Apple alla Walt Disney, ben trenta aziende per 3mila miliardi di dollari di capitale complessivo si sono presentate a Seattle in occasione della prima visita di Stato in America del presidente cinese
Perché, nonostante il clima di tensioni, non possono fare a meno del mercato di Pechino
di Federico Rampini

Anche molti governatori si sono mossi per chiedere investimenti sul loro territorio Trump attacca: “Ci succhiano il sangue” Gli altri repubblicani usano guanti di velluto Cinque anni fa il 58% dei manager erano ottimisti sugli affari a Shanghai oggi sono scesi al 24%

Il presidente Xi Jinping, intervenendo martedì a Seattle, durante la sua prima visita da capo di Stato in America, ha spiegato che l’ideogramma cinese che raffigura la parola “popolo” assomiglia a due bastoni che si sostengono l’un l’altro

NEW YORK È ARRIVATO martedì su un Boeing 747. E poche ore dopo il suo atterraggio a Seattle, la Boeing ha annunciato la vendita di 300 aerei… e l’apertura di una fabbrica in Cina. Dopotutto, la Repubblica Popolare assorbe da sola il 25% delle vendite del gigante aeronautico. È una sintesi del “metodo Xi Jinping”. Nella sua prima visita di Stato in America, preceduto da turbolenze finanziarie e un rallentamento della crescita, accuse di espansionismo militare, critiche per i cyber-attacchi e lo spionaggio industriale, il presidente cinese ha già mostrato di non voler fare concessioni. Il suo messaggio al Big Business americano suona come una domanda minacciosa: potete fare a meno del nostro mercato?
Se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna… Stavolta è toccato ai Padroni della Rete spostarsi in massa. L’imponente e roccioso Xi li ha “convocati”, letteralmente, molto più a Nord della Silicon Valley. Guai a non presentarsi. E così il chief executive di Apple, Tim Cook, ha dovuto partire in trasferta nell’estremità nordica della West Coast. È lo stesso Cook ad avere ammesso candidamente che il valore di Borsa di Apple è stato amplificato dal successo cinese: in quel paese ormai si vendono più iPhone che sul mercato americano o europeo. Insieme a Cook sono andati in pellegrinaggio a Seattle molti altri esponenti dell’economia digitale: in tutto 30 aziende, per una capitalizzazione complessiva di 3.000 miliardi di dollari. C’erano anche esponenti della Old Economy come un altro colosso californiano, la Walt Disney, rappresentata dal numero uno Bob Iger: lui sta facendo il conto alla rovescia per l’inaugurazione della nuova Disneyland di Shanghai, inizio 2016, un affare da 5,5 miliardi. C’era la donna che dirige General Motors, Mary Barra: anche per lei il mercato cinese rimane strategico malgrado la frenata nei consumi. E c’erano naturalmente i maggiorenti dell’economia locale da Bill Gates a Jeff Bezos, visto che Seattle è la San Francisco del nord, sede oltre che della Boeing anche di Microsoft, Amazon, Starbucks.
Chi l’ha detto che un autocrate non ha il senso dell’umorismo? Xi nel banchetto ufficiale ha evocato la sua campagna anticorruzione con un tocco d’ironia. A chi gli chiedeva se sia vero che in prigione per tangenti stanno finendo i suoi rivali politici in seno al partito comunista, lui ha risposto: «Non siamo mica House of Cards ». Gustosa battuta, tanto più che la popolare serie televisiva americana — una fiction a base di congiure politiche tra Casa Bianca e Congresso — è una delle più contraffatte in Cina dove se ne vendono Dvd pirata a centinaia di migliaia.
Il clima tra il capitalismo Usa e il governo di Pechino è inquieto. Lo U.S.-China Business Council, una Camera di commercio che riunisce le multinazionali Usa a Pechino e Shanghai, rivela un deterioramento. Nel periodico sondaggio fra imprenditori e top manager americani presenti su quel mercato, cinque anni fa prevaleva il 58% di ottimisti. Oggi quelli che vedono un futuro roseo per i loro affari in Cina si sono ridotti al 24%. E non è unicamente per il rallentamento della crescita cinese. Le aziende straniere — non solo americane — sono prese di mira da un governo che privilegia sistematicamente gli imprenditori locali e le sue aziende di Stato. I Padroni della Rete sono i più esposti. Google, Facebook, Twitter, Yahoo, sono bloccati di fatto o vietati esplicitamente per gli utenti cinesi. Altre aziende hi-tech stanno soffrendo. La californiana Qualcomm si è vista appioppare un miliardo di dollari di multa. La Microsoft è stata costretta dal governo di Pechino a fornire upgrade gratuiti sul suo software… anche agli utenti che hanno copie pirata. L’offensiva delle autorità talvolta si avvale di un alibi di ferro: Edward Snowden. La “gola profonda” della National Security Agency due anni fa accusò alcune imprese hi-tech di fungere da cavalli di Troia per lo spionaggio americano. Tra queste citò Cisco, un colosso della Silicon Valley che fornisce al mondo intero l’infrastruttura “fisica” di Internet, come i router e le centrali di smistamento del traffico online. Da allora Cisco ha visto cadere del 30% il suo fatturato in Cina, a vantaggio di concorrenti locali come Huawei. In generale le accuse di Snowden hanno offerto il destro a Xi Jinping per un giro di vite in nome della sicurezza: nuove leggi impongono alle multinazionali della Silicon Valley di rivelare a Pechino i loro codici e software brevettati; nonché di sottostare a limitazioni sul flusso di dati in uscita dalla Cina.
Anche quelle aziende americane che sostengono di avere più sofferto della pirateria cinese o di altre penalizzazioni su quel mercato, non hanno osato però disertare l’appuntamento di Seattle. Lo “zar di Internet” cinese, Lu Wei, aveva diramato gli inviti all’incontro con Xi Jinping specificando che eventuali assenze non sarebbero passate inosservate. Il messaggio inviato ai chief executive della Silicon Valley e dintorni: chi non verrà a omaggiare il presidente Xi, potrebbe essere oggetto di “attenzioni particolari” nel suo business in Cina.
L’ambivalenza dei capitalisti Usa è stata notata — e stigmatizzata — anche da Barack Obama. In un suo vertice con la Business Roundtable (una Confindustria americana), il presidente ha detto: «Quando avete dei problemi in Cina e volete il nostro aiuto, dovete uscire allo scoperto. Non potete dirci: ho subìto questo e quello, ma non fate il mio nome, non voglio si sappia che vi ho sollecitati». Un comportamento omertoso, insomma, dettato dalla paura di ritorsioni. Per quanto irritato, Obama ha deciso di non mettere in difficoltà i suoi imprenditori. La Casa Bianca ha rinviato l’annuncio di sanzioni contro il cyber-spionaggio cinese: erano pronte alla vigilia della visita di Xi, invece se ne parlerà dopo la sua conclusione.
Non sono soltanto gli imprenditori a sostenere una linea morbida verso la Cina. In pellegrinaggio per omaggiare Xi a Seattle sono andati anche numerosi governatori di Stati Usa, dal progressista Jerry Brown (California) al repubblicano Rick Snyder (Michigan). Tutti corteggiano gli investimenti cinesi sul loro territorio.
Nei primi 6 mesi di quest’anno le imprese cinesi hanno realizzato 88 operazioni per un valore di 6,5 miliardi di dollari. Un aumento del 47% rispetto all’anno precedente. Donald Trump, candidato alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, sulla Cina dice cose tremende: «Sta violentando la nostra economia. Succhia il sangue dell’America ». Ma i suoi colleghi di partito che governano, dalla South Carolina all’Ohio, preferiscono usare i guanti di velluto. Dovrà tenerne conto anche Obama quando venerdì toccherà a lui accogliere Xi alla Casa Bianca. Le tensioni bilaterali sono molte: l’espansionismo cinese nei mari che bagnano diversi alleati dell’America (Giappone, Filippine); i cyber-attacchi contro i siti governativi americani incluso quello della Social Security. Ma più di ogni altra cosa preoccupa l’indebolimento della locomotiva economica cinese, una potenza industriale con cui l’America ha instaurato una profonda simbiosi da un quarto di secolo. E su questo Obama, volente o nolente, è costretto a tifare perché Xi sia l’uomo giusto nel momento giusto.

Repubblica 23.9.15
Quando si poteva ridere degli Dei
I travestimenti di Dioniso, i tradimenti di Afrodite, i riti e le commedie.Così gli antichi si prendevano gioco del divino
di Maurizio Bettini

Il testo che anticipiamo è una sintesi della lectio con cui Maurizio Bettini inaugurerà venerdì a Livorno (in Piazza del Luogo Pio) “Il senso del ridicolo”, primo festival italiano sull’umorismo, sulla comicità e sulla satira diretto da Stefano Bartezzaghi. La manifestazione proseguirà fino a domenica 27 con incontri e mostre. Tra gli ospiti: Francesco Piccolo, Alessandro Bergonzoni, Francesco Tullio Altan, Carlo Freccero, Sergio Staino, Maryse Wolinski, Francesco M. Cataluccio, Gioele Dix

Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente “naturale”. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa – tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori. Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune. È quello che accadeva, per esempio, presso i Krachi, una popolazione della zona del Volta, in Africa, oggi parte dello stato del Ghana, nei cui racconti
trovano posto una divinità che si allontana dagli uomini perché ogni mattino una vecchia la colpisce col pestello; o addirittura taglia un pezzetto del suo corpo per metterlo nella zuppa. A questo proposito Italo Calvino si domandava se «già in origine le religioni di questi popoli» non fossero «imbevute di realismo e di autoironia». Ma anche senza uscire dal nostro ristretto orizzonte geografico, ossia l’Europa, basterà ricordare che anche la cultura antica, quella propria dei Greci e dei Romani, ammetteva tranquillamente la possibilità di ridere della divinità. Il fatto è che troppo spesso noi giudichiamo naturali, ossia propri della natura umana, abitudini e comportamenti che sono invece costruzioni culturali: tant’è vero che basta voltare pagina, nel libro delle culture, per scoprire che altri, diversi da noi, hanno avuto e hanno comportamenti diversi da quelli che noi riteniamo imposti direttamente dalla natura. Ed è questo il caso di quelle culture, come le antiche, in cui si poteva ridere degli dèi.
Siamo ad Atene, nel 405 a.C., in piena guerra del Peloponneso, un periodo particolarmente drammatico per la città. Per l’esattezza ci troviamo fra i mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui si celebravano le Lenee , una festa dedicata a Dioniso (con l’epiteto di Leneo) in cui si svolgevano importanti agoni teatrali. È questo il momento in cui Aristofane mette in scena le Rane , una delle sue commedie più celebri. La trama è la seguente. Accompagnato da un servo, Xanthias, il dio Dioniso decide di scendere all’Ade per riportare in vita il poeta Euripide, di cui è un ammiratore. Si tratta di un viaggio non privo di rischi, ragion per cui il dio decide di assumere l’identità dell’unico personaggio che, da vivo, è stato capace non solo di scendere all’Ade, ma anche di uscirne: ossia Eracle. Dioniso indossa dunque la pelle di leone, tipica dell’eroe, ne impugna la celebre clava, e così travestito si mette in cammino. La prima tappa è costituita, per l’appunto, da una visita a Eracle. Il quale però, vedendo Dioniso con indosso i suoi tipici attributi, non può far a meno di notare che, da sotto la gloriosa leonté , spunta il bordo di una tunica gialla, tipicamente femminile; e che la terribile clava si accompagna a una calzatura dal tacco alto, anch’essa femminile. «Non riesco a non ridere», commenta Eracle vedendo Dioniso combinato così. E con queste parole siamo già entrati nel nostro tema: ridere degli dèi.
Non si tratta però solo di Aristofane: l’uso di ridere degli dèi in Grecia è presente già a partire da Omero. Molti ricorderanno la celebre scena, narrata nell’Odissea, in cui Ares fa all’amore con Afrodite, che è presentata come sposa di Efesto. Ma il fabbro divino si è accorto del tradimento, per questo imprigiona i due amanti in una rete infrangibile – di quelle che solo lui sa costruire – e li espone al ludibrio delle altre divinità ( Odissea 8, vv. 306 e ss.): «Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, perché lui è bello e veloce, mentre io sono storpio». Ares e Afrodite, goffi amanti esposti al ludibrio degli altri dèi, sono personaggi ridicoli. Ridono gli dèi di questa scena, ma insieme agli dèi dell’Olimpo ridono anche i lettori dell’ Odissea . È un fatto che il politeismo antico accetta una pratica – ridere della divinità – che stupisce (quando non indigna) noi uomini di oggi, islamici, cristiani o anche laici che della divinità, anche se le siamo estranei, abbiamo comunque ereditato l’immagine che per secoli e secoli ne hanno dato le religioni monoteiste. Ora, se si guarda bene come funziona le religione antica, si vede che anche con il dio si possono stabilire prati- camente tutte le relazioni che sono attive anche fra gli uomini. Con la divinità si può comunicare attraverso la preghiera; l’offerta di frutti o il sacrificio di animali – ossia doni di carattere molto concreto – costituiscono una forma di omaggio ma anche di scambio, servono a stabilire amicizie e alleanze con la divinità; ancora, gli dèi antichi non sono solo tanti e molteplici, ma sono divinità presenti, lo sono nei templi della città, in quelli sparsi sul territorio, nelle case dei cittadini, che li onorano con il culto domestico, le loro immagini sono ovunque e di ogni forma. «Tutto è pieno di dèi», diceva Talete, la loro presenza fra i mortali è diffusa è continua.
Neppure la natura degli dèi, se ci si pensa bene, è radicalmente diversa da quella degli uomini: a differenza di questi essi sono esseri immortali, è vero, ma entrambe le stirpi, quella divina e quella umana, hanno comunque una stessa origine, tutte e due provengono da Gaia, la Terra. Gli dèi antichi sono non solo vicini agli uomini, sono soprattutto “partner” dei mortali, esseri potenti e immortali che però, a dispetto di ciò, possono anche porsi “in relazione” con gli umani sotto molteplici punti di vista. Ecco perché si può anche ridere di loro: allo stesso modo in cui si può averli in casa propria, proporre loro scambi offrendo frutti o animali, combatterli, amarli, sognarli. Perché ridere non è diverso da tutto il resto: prendersi gioco di qualcuno fa parte dell’intero bouquet di relazioni che gli uomini stabiliscono fra loro.
A questo punto non ci resta che concludere con un breve parallelo fra il modo in cui gli antichi hanno rappresentato i loro dèi e quello in cui le religioni dette monoteistiche si rappresentano invece la propria divinità. Lasciamo da parte il cristianesimo, che si è costruito sul racconto di un Dio che si è fatto uomo per essere ucciso e così redimere i peccati del mondo: una religione come questa, che si fonda sulla passione e la morte del figlio di Dio, si oppone costituzionalmente alla possibilità di ridere. Quanto al Dio ebraico e islamico – ma questo vale anche per colui che i Cristiani chiamano Dio Padre – a differenza delle divinità antiche questa non solo è unica, maè soprattutto lontana : è un dio che, in quanto costituisce l’origine di tutto ciò che esiste, ed è egli stesso il Tutto – increato ed eterno, infinito, assoluto – per lo stesso motivo è anche remoto, inafferrabile negli spazi siderali che costituiscono solo una particella della sua immensità. Con Lui non si interagisce offrendogli doni concreti, ma gli si rivolgono solo offerte metaforiche e spirituali. Di lui non esistono immagini, la sua è una presenza tanto totale quanto astratta, anzi, astratta proprio perché totale. L’unica relazione che con lui si può avere è di totale sottomissione, di piena accettazione ai suoi voleri, l’esecuzione della sua volontà in un progetto che è addirittura cosmico e, come tale, va ben oltre ciò che riguarda la minima presenza dei singoli uomini. Come si potrebbe ridere di una divinità come questa?

il manifesto 24.9.15
«Parlarsi» di Eugenio Borgna per Einaudi
Dispositivi emozionali per la comunicazione
Ipotesi di incontro e di condivisione in un mondo sovrastato da rumori di fondo
di Riccardo Mazzeo

Eugenio Borgna è un bravo psichiatra che ha fatto propria una lezione di cui dovrebbero fare tesoro tutti coloro che si occupano di scienze umane: stabilire connessioni fra la loro specifica disciplina e le altre, nutrendosi dunque di letteratura, cinema, arte. Il titolo della sua ultima opera, Parlarsi (Einaudi, pp. 100, euro 11), è quindi un’epitome di un’operazione più vasta che fa dialogare la psichiatria con Goethe, Leopardi, Pascal e molti altri lieviti del pensiero. Scrive infatti: «alla conoscenza e all’approfondimento della condizione umana non sono chiamate solo la letteratura e la filosofia, ma anche la psichiatria che, in alcuni suoi aspetti tematici, ha a che fare con la sfera vasta e indefinita delle scienze umane. Certo, questa non è la psichiatria che si esaurisce nelle sue radici biologiche».
Problemi di corrispondenze
Il problema sollevato da Borgna attraversa innumerevoli ambiti che hanno tutti a che fare con «l’essere Persona»: l’aridità con cui il medico consegna una diagnosi infausta al paziente limitandosi alla trasmissione dei dati, senza tenerlo presente come essere sofferente, la comunicazione impersonale e frettolosa di un licenziamento da parte di un tagliatore di teste a un dipendente che spinto nella voragine dell’esubero, ma anche la moda incipiente di lasciare il/la partner con un messaggio telegrafico e pubblico su Facebook. In sostanza, la perduta capacità di trattare un proprio simile come tale e non come una «cosa» inerte, passiva e «trascurabile». «Non c’è comunicazione autentica in psichiatria, e non solo in psichiatria, se non quando si abbiano parole capaci di creare un ponte fra la soggettività di chi parla, e quella di chi ascolta, la soggettività di chi cura, e la soggettività di chi è curato; e quando ci siano corrispondenze fra il tempo interiore dell’una e quello dell’altra».
La sensibilità di Borgna è qualcosa di cui abbiamo bisogno oggi più di quanto ne avessimo prima dell’era dei «Millennials» che sono cresciuti a Nutella e internet. Ora che i giovani, gonfi di informazione e pervasi da un pericoloso senso di onnipotenza dovuto alla possibilità di accedere a ogni rivolo dello scibile, e che a causa di questo riducono le parole al loro barthesiano grado zero fatto di nuovi segni brevi quanto banali, è opportuno rievocare Hugo von Hofmannsthal in proposito: «le parole sono creature viventi, ma sono anche prigioni sigillate dal mistero, e ogni volta dovremmo essere capaci di aprire queste prigioni, di togliere loro i sigilli, di farne sgorgare i significati, e di scrutarne le cifre tematiche solo apparentemente oscure e inesplicabili».
Il silenzio necessario
In ogni caso parlarsi non implica il mero uso delle parole, poiché per un verso contano il modo («il diapason emozionale») e il tempo («le scansioni temporali») con cui vengono dette; per l’altro, i silenzi, che sono non meno importanti, possono trasmettere una vicinanza profonda e palpitante. «Chi non fa che parlare, non si possiede realmente, giacché scivola via di continuo da se stesso, e ciò che egli dona agli altri non sono che vacue parole». Il silenzio diventa dunque sempre più raro e prezioso nel tempo scandito dalle musiche che invadono i negozi così come gli atri delle stazioni ferroviarie o degli aeroporti. Le spiagge sono sovrastate da annunci assordanti: per godere di un po’ di silenzio ormai si deve raggiungere il mare d’inverno per apprezzare la sua immensità in solitudine. Il silenzio è ben diverso dall’isolamento, che è depressivo; il silenzio è la presenza rispettosa e partecipe che può essere offerta all’altro; oppure è il tempo del raccoglimento che consente di riflettere e di distinguere ciò che è rilevante da ciò che non lo è.
Infine, l’importanza di parlarsi con gli sguardi, le posture, i gesti, il corpo: «il corpo vivente che ci mette in comunicazione con noi stessi e con il mondo, ed è il corpo che è immerso in una cascata di significati che cambiano di emozione in emozione, in un carosello febbrile e temerario». Il corpo è scolpito dalla vita vissuta e dalle difficoltà affrontate, dalle battaglie vinte e da quelle perse: un tempo si compivano sforzi e si studiavano cose ritenute a torto inutili; oggi si cerca di evitare ogni sforzo e se una cosa è complicata e impegnativa o la si semplifica o la si elude, ma questo è un tradimento nei confronti della vita.
Borgna conclude il suo libro con le parole di Rilke: «E se vi debbo dire ancora una cosa, è questa: non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare queste parole».

Repubblica 24.9.15
Dopo il reportage di Paolo Rumiz un progetto di Franceschini per mettere in salvo l’Appia Antica
di Carlo Alberto Bucci

Il ministro per i Beni culturali ha annunciato ieri un piano per tutelare il tracciato della strada e per percorrere i cinquecento chilometri che da Roma portano a Brindisi
Il viaggio di andata di Paolo Rumiz lungo le antiche basole dell’Appia Antica è servito a riscoprire la diagonale che attraversa l’Italia del Sud e il paesaggio dimenticato di questa strada che dal 312 a.C. unisce Roma a Brindisi. Ma è stato nel viaggio di ritorno che il giornalista ha potuto «raccogliere ciò che avevo seminato con gli articoli su Repubblica : un mandato da parte del popolo dell’Appia perché le venga restituita la dignità del titolo di Regina Viarum». La camminata di Rumiz e dei suoi quattro compagni ha avuto un primo, buon esito. Ieri il ministro dei Beni culturali e del turismo, Dario Franceschini — «rumiziano da sempre», ha confessato — ha annunciato il progetto per un “Cammino dell’Appia Antica”. E lo ha fatto nella sede dell’Archivio Antonio Cederna, il centro di Capo di Bove della Soprintendenza archeologica di Roma che raccoglie l’opera del giornalista e archeologo che nel 1953 iniziò a denunciare lo scempio edilizio dei Gangster dell’Appia Antica .
I tecnici del ministero hanno messo a punto un piano che prevede la pulizia dei tratti di strada supertistiti, il ripristino dei segmenti sepolti, la creazione di un logo e di una app perché sia riconoscibile il tracciato per i “pellegrini laici” disposti a riscoprire quei 533 chilometri di storia maltrattati dal sacco cementizio. «Metteremo a disposizione i beni demaniali che si trovano lungo l’Appia », ha spiegato Franceschini: «Stazioni abbandonate, case cantoniere in disuso, i fari non più operativi potranno diventare ostelli, ristoranti, officine per bici e moto ».
Rumiz ha intrapreso un «viaggio d’andata monstre di 30 giorni, di quelli che i giornalisti non fanno più, armato di umiltà e di quello spirito indispensabile che chiede di andare, guardare e raccontare», ha sottolineato il direttore di Repubblica , Ezio Mauro. Il reportage ha messo in luce, anche attraverso il documentario in tre puntate realizzato con Alessandro Scillitani, lo stato di abbandono dell’Appia Antica: mausolei trasformati in pollai, cisterne cementificate, basole trasportate nelle ville, interi tratti interrati, abusi edilizi addosso ai resti, palazzi che sbarrano la strada. Ma anche «interi tratti di mura medievali del Castrum Caetani che, pur essendo dello Stato, si trovano in terreni privati, quindi invisibili come altri antichi sepolcri», ha detto l’archeologa Rita Paris, responsabile dell’area.
La competenza del cartografo Riccardo Carnovalini ha permesso a Rumiz di rintracciare la “retta via” smarrita. «Tre quarti dell’Appia Antica sono scomparsi, e pensare che nelle carte degli anni Cinquanta il percorso era praticamente integro. Eppure — aggiunge Rumiz — dietro a ogni scempio c’è una meraviglia da scoprire. «Oltre il mostro dell’Ilva, che a Taranto ha sommerso l’Appia, c’è il mare stupendo e uno dei musei archeologici più belli d’Europa».
Franceschini, che il 14 ottobre vedrà i presidenti delle quattro Regioni attraversate dall’Appia, punta sull’Art Bonus e «sui “Fondi di sviluppo e coesione” per il restauro dei beni archeologici e la riqualificazione delle strutture per l’accoglienza dei turisti ». Uno degli interventi annunciati dal segretario generale del Mibact, Antonia Pasqua Recchia, oltre «all’anfiteatro di Capua, la città di Spartaco», è il molo del porto di Brindisi. Una delle due colonne nel punto in cui l’Appia si getta in Adriatico è sparita.

Corriere 24.9.15
Mille schegge di memoria Fago alla ricerca delle radici

Il titolo, Pouilles. Le ceneri di Taranto , lasciava presagire un altro monologo su una disgrazia italiana. Il nome dell’autore era tutt’altra cosa. Strano, mi dicevo, che Amedeo Fago abbia scritto sul criminale inquinamento della città pugliese. Ma potrei fare finta di niente? potrei non vederlo? No, per due motivi: quello sentimentale era che Fago aveva lavorato come scenografo nei primi tre film di uno dei miei amici più cari, Emidio Greco — che dal dicembre 2012 non c’è più; quello artistico risale al 1978, quando il suo quasi debutto come autore e regista, Risotto , divenne un successo prima romano, poi italiano, infine mondiale.
Pouilles è nato in Francia, una produzione per la Maison de la Culture de La Seine-Sainte-Denis, e approda al Vascello di Roma per le Vie dei festival: purtroppo in replica unica, la sera in cui andava in scena all’Argentina Milite ignoto di Mario Perrotta, anch’esso in replica unica. Non mi sono scoraggiato. Sono riuscito a vedere Pouilles nella prova generale del pomeriggio: uno spettacolo tutto diverso da Risotto , ma anche dalle supposizioni nate dal titolo. È l’autore a dire come esso sia maturato nel corso degli anni. Cominciò a pensarci quando volle comunicare ai parenti la nascita della sua terza figlia e scoprì che erano più di quanti immaginasse o sapesse.
Riflettendo su tale quantità Fago tornò a Taranto e cominciò una ricerca: prima il cimitero, poi la biblioteca, poi gli archivi, le carte pubbliche, le carte private: lettere, cartoline e fotografie. Ebbene, lo spettacolo consiste nell’esposizione di questa ricerca. Sul lato sinistro della scena c’è Fago, seduto dietro una scrivania. Egli va incollando i cocci di una bianca zuppiera. Dopo questa operazione, ne seguirà un’altra, sul lato destro, dove sono deposti un baule e una cesta: ne verranno tratti i vecchi abiti poi con ordine appesi ciascuno alla sua stampella: quasi dovessero rivivere lì, in scena, per un breve momento.
Di che cosa frattanto ci parla l’architetto e scenografo Amedeo Fago? Ci parla dei suoi avi, prima i bisnonni, poi i nonni, poi i genitori: e delle numerose famiglie scaturite dalle nozze di cui è riuscito ad avere materiale notizia.
Egli ci mostra in video ogni lettera, cartolina e foto e ce ne illustra il semplice, ingenuo, antico contenuto — quasi sempre legato all’assai meno semplice corso della storia pubblica, la storia d’Italia: l’Unità, la Libia, la Prima guerra mondiale, i podestà.
Ce ne parla con tono pacato, privo di accenti d’ogni tipo: egli è là, in carne e ossa, non è che un narratore. Poi, all’improvviso, le cose cambiano. Arriva un giovane uomo (Giulio Pampiglione). È il padre dell’autore quando aveva quasi cinquant’anni, cento anni fa. Il figlio gli mostra come sarà la sua vita, gli garantisce che di anni ne vivrà ancora cinquanta e dice che il loro incontro è possibile perché così è il teatro, il teatro è il luogo in cui si può risalire alle origini, due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, sedici bis-bisnonni, sessantaquattro avi, centoventotto trisavoli, fino ai miliardi dell’umanità intera. Ma lì, su quella scena il tempo non esiste, non ve ne sono che le polveri.