martedì 22 settembre 2015

Repubblica 22.9.15
Conflitti e intese nella politica pop
La storia infinita forse si chiude nel segno antico del “Tatarellum”
La vecchia legge regionale viene riesumata e diventa l’uovo di Colombo che ricompone le fratture nel Pd
di Stefano Folli


NONOSTANTE le apparenze, la Direzione del partito di maggioranza relativa ieri ha fatto un passo avanti non irrilevante verso l’accordo interno sulla riforma costituzionale. Le apparenze nascono dagli equivoci mediatici e da certi toni sbagliati, poi in parte corretti, di Matteo Renzi nei confronti del presidente del Senato.
Un tempo anche i contrasti istituzionali erano celati dietro un codice a cui tutti si attenevano. Quando quel codice saltava, voleva dire che la crisi era irreversibile. Oggi vediamo un premier-segretario che preme con asprezza verbale inusuale sul presidente di un Senato ormai dato per moribondo. La colpa di Grasso è la solita: essere troppo esitante nel dichiarare inammissibili gli emendamenti all’articolo 2. Sappiamo che il presidente del Consiglio considera questi emendamenti come una valanga che travolgerebbe l’impianto della riforma e certo non ha torto. Eppure lo stesso Renzi ha aperto uno spiraglio, accettando sia pure a fatica che un segmento del cruciale art. 2 sia invece emendabile. Non è strano allora che Grasso voglia vederci chiaro prima di pronunciarsi.
In ogni caso, anche qui non bisogna credere troppo alle apparenze. Se pure aleggia un sentore di crisi istituzionale, siamo nella Terza Repubblica, dominata dalla politica “pop”. Il che significa una sola cosa: il conflitto fra Palazzo Chigi e Palazzo Madama sembra grave, ma può anche essere dimenticato domani mattina o fra due giorni. Inoltre, la frizione fra istituzioni è in grado di coesistere senza problemi con i progressi dell’intesa sull’elezione diretta/indiretta dei nuovi senatori.
Il tema è sempre più astruso per l’opinione pubblica. Anche nelle feste dell’Unità, riferiscono i testimoni, prevale la stanchezza e l’ansia di chiudere in fretta lo psicodramma della riforma. Pochi pensano che si tratti di una questione di fondo che ha a che fare con il complesso degli equilibri costituzionali. La filosofia del “facciamo presto e andiamo oltre” ha fatto molti adepti nella cosiddetta base e lo stesso Bersani deve essere molto convincente per farsi apprezzare. In altri termini, l’irriducibile minoranza del Pd rischia ogni giorno di più di essere percepita come un gruppo di generali che non ha dietro di sé la truppa. Tuttavia, alcune delle questioni poste non sono per nulla trascurabili e infatti Renzi, a suo modo e con il tipico linguaggio perentorio e beffardo, ha cominciato ad affrontarle.
Non sono secondarie le forme attraverso cui i neo senatori saranno scelti, designati o eletti. E il passo avanti che Renzi ha compiuto, stavolta in prima persona, chiama in causa l’ex ministro di Alleanza Nazionale, Tatarella, autore nel ‘95 della legge elettorale per le regioni. Visto che Palazzo Madama sta per diventare il Senato delle Autonomie, perché non rifarsi a uno degli architetti di quel sistema? L’idea è parsa buona anche alla minoranza, perché si riallaccia a un filone di pensiero cui nel tempo hanno offerto contributi molti esponenti della sinistra, a cominciare da Luciano Violante.
Peccato che nel corso degli anni le singole regioni abbiano via via stravolto l’iniziale schema elettorale fino ad arrivare alla babele attuale. Ma quel che conta è la volontà politica. Recuperare lo spirito originario dei “listini regionali” con cui si elegge il presidente e i consiglieri a lui collegati può essere un modo per ragionare in concreto. Fino a superare la frattura logica fra senatori solo “designati” e senatori eletti e poi “ratificati” dai consigli regionali. Una specie di elezione diretta filtrata tanto da apparire indiretta e quindi tale da non compromettere il profilo della riforma nel suo complesso. Gli aspetti tecnici si vedranno nelle prossime ore. Senza dimenticare che mai come stavolta il dato tecnico e il senso politico si mescolano. Non è nemmeno escluso che per vie traverse e per l’eterogenesi dei fini si arrivi a una specie di Bundesrat italiano, come evocato da Chiamparino. Quel che conta, nessuno ha tirato la corda con l’intento di spezzarla.