Repubblica 22.9.15
L’ira del presidente “Quelle della mafia erano minacce lui non fa paura”
di Francesco Bei
ROMA. Pietro Grasso, come tutti gli italiani coinvolti o interessati alla questione, ieri era davanti alla televisione accesa sulla diretta del Nazareno. Nel suo studio a palazzo Giustiani. Diciamo che un po’ se lo aspettava, ma quando alla fine la botta è arrivata, dopo aver sentito quella frase di Renzi sulle convocazione delle Camere, ha allargato le braccia. Senza perdere l’aplomb anglo- siciliano, ha sorriso: «Che esagerazione! Nemmeno in caso di guerra Camera e Senato vengono convocati in seduta comune. Aspettiamo mezz’ora per la solita smentita». E infatti la smentita, o meglio la precisazione del premier, è arrivata. Non alle Camere si riferiva, ma alle assemblee dei gruppi Pd. «Come previsto - si è tolto la soddisfazione Grasso - . Però un presidente del consiglio le parole le deve misurare prima, non dopo. Le istituzioni vanno rispettate».
In ogni caso il presidente del Senato mostra di considerare chiuso l’incidente, non senza togliersi prima un sassolino dalla scarpa. Una considerazione che consegna ai suoi e lascia filtrare dalle ovattate stanze di palazzo Madama. Se il governo pensa di intimidirlo e di fare pressioni per influenzare la sua decisione sull’emendabilità o meno dell’articolo 2 del ddl Boschi, sbaglia indirizzo. «Queste - sostiene Grasso - non sono né pressioni né minacce, almeno per me. Io ne ho vissute ben altre e non hanno mai influenzato il mio comportamento, lo sanno bene tutti». Un riferimento che solo agli smemorati non fa accapponare la pelle. Perché per uno che è stato per trent’anni magistrato antimafia può voler dire una cosa sola: Cosa Nostra ha provato ad ammazzarmi, figuriamoci se mi faccio spaventare da Renzi. E così basta ripercorrere la sua storia per ricordare che le ultime minacce risalgono allo scorso anno, quando era già presidente del Senato, con tanto di cecchini mafiosi appostati nei dintorni di casa sua. Ma di piani più concreti per uccidere l’ex procuratore nazionale antimafia, che tra il 1986 e il 1987 è stato giudice a latere nel maxiprocesso a Cosa nostra, ne sono venuti fuori diversi. Il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera qualche mese fa lo raccontò in una delle udienze del processo per la trattativa Stato-mafia: «Per Grasso era pronto il tritolo, i boss lo avrebbero usato mentre il magistrato si recava in visita a casa della suocera vicino a Monreale ».
Insomma, Grasso non è tipo da spaventarsi per delle frasi pronunciate da un ministro, un capogruppo o persino un presidente del Consiglio.
Altra cosa è la questione che lo ha messo in contrapposizione al Pd renziano. Che Grasso sia stato in passato un sostenitore dell’elezione diretta è agli atti. In un’intervista a Liana Milella su Repubblica , nel marzo dello scorso anno, lo disse chiaramente: «Io immagino un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli». È da allora che i rapporti con il governo si sono raffreddati. Fino ad arrivare a un passo dalla crisi istituzionale di questi giorni. Con il premier a cui viene attribuita l’intenzione di trasformare il Senato in «un museo» e la piccata replica del “custode” del galleria: «Non si possono relegare le istituzioni in un museo». I renziani gli stanno con il fiato sul collo. Anche ieri, durante la direzione, si respirava la solita irritazione per quella che viene ritenuta una tattica dilatoria che serve soltanto a fare il gioco della minoranza dem: «Se questa panna dell’articolo 2 è montata - si lascia sfuggire uno di loro - è solo colpa sua». Eppure Grasso non si muove, come il Prodi-semaforo delle caricature di Corrado Guzzanti. «Finché non arrivano sul mio tavolo gli emendamenti non posso prendere alcuna decisione», ha ripetuto anche ieri ai collaboratori. Ci vorrà almeno un’altra settimana, soprattutto se gli emendamenti saranno milioni.