Repubblica 1.9.15
Pechino arresta trader e blogger “È colpa vostra”
di Giampaolo Visetti
PECHINO. Le Borse cinesi dopo tre giorni tornano a scendere, trascinano giù il resto dell’Asia (a parte Seul e Taiwan) ma in attesa della decisione della Fed sui tassi Usa, Pechino scatena la repressione contro chi «minaccia la crescita nazionale». A una settimana dal «lunedì nero », la riapertura dei mercati ha confermato ieri che i timori di investitori e governi stranieri non sono causati tanto dallo scoppio della bolla finanziaria cinese e dall’inizio della svalutazione dello yuan, quanto dai fondamentali economici della seconda potenza mondiale e dalla riforma del suo modello sviluppo. Nonostante il maxi- piano del sostegno di Stato, Shanghai ha contenuto il calo allo 0,82%, Hong Kong allo 0,27%, mentre nella più industriale Shenzhen il tonfo è stato di un altro 3,6%. Male pure Tokyo, meno 1,28%, che paga anche l’inatteso calo della produzione industriale giapponese. Ad alimentare l’incertezza globale è però ora l’inedita risposta di polizia fornita da Pechino alla sua prima, vera crisi economica dopo trent’anni di crescita record. Mentre a milioni di cinesi basta infilare una mano in tasca per accertare che la frenata non è un’invenzione da dissidenti, le autorità fanno seguire decine di arresti e di confessioni pubbliche al fallimento della censura tentata nelle ultime settimane. I media di Stato rivelano che 197 persone «sono state punite» per aver diffuso «voci false» sul «presunto crollo delle Borse».
I manager delle più importanti società di brokeraggio sono finiti in carcere e ora tocca a banchieri, alti funzionari di ministeri e colossi energetici di Stato, giornalisti. Wang Xiaolu, analista del settimanale economico Caijing, è stato costretto a confessare in tivù di aver «provocato enormi perdite in Borsa» e di aver «turbato il mercato ». Per tutti l’accusa dei leader comunisti è «insider trading » e «falsificazione di dati economici e finanziari», una capitalistica novità assoluta per la Cina comunista. Ai giornalisti nel mirino, cinesi e stranieri, la polizia addebita «panico e disordine nel mercato azionario », con l’obbiettivo di «minare seriamente la fiducia e provocare enormi perdite al Paese e agli investitori». Alti funzionari del governo confidano che l’imputazione finale potrebbe essere quella di «alto tradimento degli interessi dello Stato», che in Cina vale l’ergastolo. I casi ufficiali di «sospetta manipolazione del mercato» sono 22, 48 da gennaio: tra i manager in carcere anche Liu Shufan, capo della commissione nazionale di vigilanza sulle contrattazioni, accusato di corruzione, oltre che i vertici di «Citic Securities », prima società cinese di trading. Sono però gli stessi leader di Pechino, a partire dall’indebolito premier Li Keqiang, a mostrare di non credere che censura e repressione possano nascondere i problemi dell’economia del Dragone. Per la prima volta, governo e consiglio di Stato hanno introdotto ieri un tetto al debito pubblico, fissandolo per legge a 2,5 mila miliardi di dollari nel 2015. E’ l’implicita ammissione che, assieme a frenata di export, produzione industriale, consumi interni e prezzo degli immobili, la vera zavorra che inizia a pesare anche su Pechino è il debito. Nel 2010 ammontava a 6,7 trilioni di yuan, nel 2013 è salito a 10,9, nel 2014 è esploso a 15,4, con un aumento del 41,4% in due anni e una stima che lo fa schizzare al più 86%. Analisti stranieri assicurano che la voragine è solo la «punta ufficiale dell’iceberg» e che per questo le autorità hanno deciso di tentare la carta di un sistema di quote massime consentite all’indebitamento di comuni, province e regioni, con bilanci da G20. Il ministro delle Finanze Lou Jiwei ha ammesso che i debiti locali possono raggiungere oggi tra l’80 e il 120% del gettito fiscale locale e che da domani non potranno superare il 100%. Lo spettro ora è la capacità di rimborso delle amministrazioni, dopo che anche la febbre borsistica cinese si è rivelata fondata sui crediti facili dei colossi bancari di Stato e delle banche ombra fuori controllo. Le nuove «purghe economiche » minacciano di alimentare la fuga sia dei capitali che degli investitori esteri, che si interrogano sul perché Pechino ha permesso proprio ora alla sua crisi di venire alla luce. Solo la risposta politica ai sintomi di un’instabilità, in un capitalismo di Stato, può permettere all’economia di contenere le perdite.