sabato 19 settembre 2015

Repubblica 19.9.15
La mediazione dell’ultima ora che può salvare il Pd
Il compromesso sull’articolo 2 non avrebbe né vincitori né vinti
Si riaprirà la partita sulle elezioni
di Stefano Folli


ORA che l’intesa nel Pd sembra davvero profilarsi — ed è la prima volta che accade dopo settimane di false mediazioni e veri contrasti — sarà meglio sfuggire alla tentazione di stabilire chi ha vinto e chi ha perso. L’aver evitato lo scontro frontale fra la maggioranza renziana e la minoranza bersaniana indica che sta prevalendo la saggezza dell’ultim’ora e questo è merito di entrambi i contendenti.
Tuttavia il passo decisivo lo ha fatto il presidente del Consiglio, insieme alla ministra Boschi. Accettando di ritoccare il famoso articolo 2, ossia la pietra dello scandalo, ha concesso un punto importante alla minoranza, ma in cambio ha disinnescato una possibile apocalisse parlamentare. Lo scambio è più che vantaggioso per un premier la cui priorità era e resta l’approvazione della riforma costituzionale in tempi celeri. Certo, il piccolo compromesso dovrebbe portare a una sorta di elezione diretta dei nuovi senatori, nell’ambito di leggi ordinarie diverse da regione a regione. Renzi aveva a lungo escluso tale possibilità; il fatto che oggi la accetti, sia pure dentro una cornice restrittiva, rivela il realismo dell’uomo. Ha tirato la corda fino all’estremo, ma non l’ha spezzata. Si è reso conto, non sappiamo quando, che vincere lasciando dietro di sé le macerie del proprio partito sarebbe stato un errore fatale. Tutti sanno che il “partito di Renzi”, o “partito della nazione” che dir si voglia, tende a superare il Pd, essendo concepito in tutto e per tutto intorno alla figura del leader. Ma imporlo attraverso strappi e lacerazioni che fanno a pezzi una tradizione e un’identità sarebbe una forma di autolesionismo distruttivo.
Quanto alla minoranza, ha dimostrato di esistere e di essere più solida e determinata di quanto la si creda a Palazzo Chigi. Si è distinta nel difendere principi di fondo che non possono essere liquidati come nostalgia del sistema bicamerale o, peggio, fame di poltrone. Al contrario, quei principi investono l’equilibrio dei poteri costituzionali, il ruolo del Parlamento, il rapporto fra elettori ed eletti. Non tutto, è ovvio, si risolve con l’accordo sull’articolo 2; più importante ancora dovrebbe essere ora una riflessione sulle funzioni e le responsabilità del nuovo Senato. Peraltro è merito politico dei dissidenti aver capito che non era consigliabile spingersi oltre. I numeri della minoranza in aula erano sufficienti per convincere Renzi al compromesso, ma non potevano essere usati per mettere in crisi il governo. Ha prevalso anche qui il buonsenso, come nelle stanze del premier.
A questo punto la direzione del Pd di martedì dovrebbe essere il luogo per verificare i termini della riconciliazione. Pochi pensano che il “partito di Renzi” possa cambiare natura e che il leader voglia accettare una gestione collegiale. Ma proprio l’accordo sulla riforma del Senato indica l’opportunità di non umiliare la minoranza, riconoscendole invece uno spazio politico. Fino a ieri c’era il precedente dell’elezione di Mattarella, esempio positivo di convergenza all’interno del partito. Da domani si potrà forse contare su un secondo precedente, che va molto al di là dell’intesa tecnica sull’articolo 2.
SULLO sfondo intanto si delineano due questioni tutt’altro che secondarie. La prima è il destino della legge elettorale, l’Italicum. Renzi la considera un capolavoro e ha respinto tutte le richieste di modificarla introducendo il premio alla coalizione anziché alla lista vincente. Ma non si può escludere che in futuro cambi idea, caso mai le circostanze fossero troppo favorevoli alle opposizioni in vista del secondo turno. L’altro punto riguarda la durata della legislatura. Una volta ottenuta la riforma del Senato e di conseguenza l’entrata in vigore della legge elettorale (con o senza premio alla coalizione), la logica e la convenienza spingeranno Renzi ad anticipare le elezioni. La fine della contesa sul Senato significa anche questo, con buona pace di chi sperava che la riforma fosse il modo migliore per allungare la vita del Parlamento fino al 2018.