venerdì 18 settembre 2015

Repubblica 18.9.15
Un segnale di disgelo ma l’iceberg è l’articolo 2
Il rischio per il governo che i voti dei transfughi di Forza Italia possano risultare determinanti
di Stefano Folli


QUANTE probabilità ci sono che la direzione del Pd, convocata per lunedì prossimo, segni un salto di qualità nel dibattito sulla riforma e avvii la riconciliazione all’interno del Pd? Qualcuna più di ieri. La mediazione che per settimane non ha mai preso forma, potrebbe acquistare un senso nelle prossime ore, con l’obiettivo ovvio di risolvere il braccio di ferro nel Partito Democratico, il partito dell’incomunicabilità fra maggioranza e minoranza.
Per la prima volta s’intravede qualche segnale di disgelo. Solo indizi, certo, ma è significativo che le aperture vengano da Palazzo Chigi e coinvolgano il famoso articolo 2, l’articolo fino a ieri intoccabile. Giorni fa era stato il senatore Tonini a suggerire un analogo ammorbidimento, ma il suo messaggio, pur accolto subito in modo favorevole dalla minoranza ( Vannino Chiti), non aveva trovato seguito negli ambienti renziani. Qualcuno aveva parlato di iniziativa personale ed estemporanea del parlamentare. Altri, con maggiore accortezza, vi avevano invece visto una luce accesa, sia pure solo per un attimo, con l’intenzione di saggiare il terreno. Oggi la linea Tonini sembra fare passi avanti e potrebbe esser fatta propria dallo stesso premier.
Ecco perché la direzione di lunedì diventa importante, forse al punto di segnare una piccola svolta nel confronto politico-parlamentare fra i due spezzoni del Pd. Ieri i voti sulle pregiudiziali hanno dato soddisfazione a Renzi, ma è evidente che il sentiero della riforma a Palazzo Madama resta un percorso di guerra. I numeri continuano a essere del tutto incerti nei passaggi cruciali, nonostante la sicurezza ostentata da Palazzo Chigi. E sono incerti sia per la maggioranza pro-riforma sia per il “fronte del no”. Rischiano seriamente di diventare decisivi i voti dei trasformisti o di coloro che hanno qualche vantaggio personale da ottenere.
Il premier è un politico astuto, nonché un giocatore di notevole freddezza. Sa alzare la posta ma conosce anche il momento in cui il rischio non vale più la candela. Una riforma costituzionale di tale portata, approvata per un pugno di voti raccogliticci e al prezzo di una lacerazione non più componibile all’interno del suo stesso partito, sarebbe peggio che una vittoria di Pirro. Un compromesso dignitoso che non cambia in nulla il senso della trasformazione in atto e però evita conseguenze dannose sarebbe invece un’operazione politica di spessore.
Non solo. Un accordo nel Pd avrebbe anche l’effetto di disinnescare la crisi istituzionale che si avverte nell’aria. Vale la pena ricordare che lo scontro fra la presidenza del Consiglio e la presidenza del Senato ha pochi precedenti nella storia repubblicana, benché finora non sia esploso in tutta la sua gravità. E meno male che è stata prontamente smentita la frase attribuita a Renzi (“Allora abolisco il Senato e lo trasformo in un museo delle istituzioni”). Tutto questo, come è noto, a causa del solito articolo 2, quello che prescriverà l’elezione diretta o indiretta dei nuovi senatori. Un’intesa politica nel Pd ricomporrebbe anche il rapporto con Grasso. Ma tutti sanno che il compromesso passa senza scampo dall’articolo 2, come chiede la minoranza. Senza che ne debba derivare la necessità di riscrivere la legge da capo, secondo i timori di Renzi.
CIÒ non significa che nelle altre sue parti il testo costituzionale sia esente da trappole e snodi complicati. Già nell’articolo 1, a sentire i protagonisti del duello, si celano notevoli insidie e il voto segreto potrebbe invogliare allo sgambetto tutti coloro che magari oggi si defilano, ma sono pronti a vendicarsi di qualche sopruso ricevuto o di qualche ambizione non appagata. La storia parlamentare è ricca di situazioni analoghe e di passaggi di campo imprevedibili. Una ragione in più per raggiungere in fretta un’intesa ragionevole, come anche il capo dello Stato auspica dietro le quinte.