venerdì 18 settembre 2015

Repubblica 18.9.15
Se in Parlamento dire “orango” non è considerato un insulto razzista
La libertà di parola dei parlamentari da nobile valore sta diventando potere discrezionale di offesa
di Chiara Saraceno


I PARLAMENTARI hanno diritto di rivolgere insulti razzisti a singoli o a interi gruppi? Hanno diritto a non essere oggetto di nessun tipo di censura, anche quando utilizzano un linguaggio che suscita disprezzo e odio nei confronti di altri, spesso non in grado di difendersi?
DUE decisioni prese rispettivamente dal Parlamento e dalla presidenza del Consiglio nelle ultime settimane sembrano dire che è così, che la libertà di parola, nel caso dei parlamentari, può sconfinare ben oltre il buon gusto e la buona educazione, fino ad includere gli insulti razzisti più intollerabili e la sollecitazione all’odio. La prima è di due giorni fa. I senatori a larga maggioranza hanno negato l’autorizzazione a procedere contro Calderoli per insulti razziali nei confronti dell’allora ministra Kyenge — sulla sua pagina Facebook le aveva dato dell’orango — derubricandoli a “semplice” diffamazione, come se l’insulto non avesse a che fare proprio con l’identificazione razziale di Kyenge.
La seconda vicenda è iniziata qualche settimana fa, quando l’on. Meloni ha messo in scena una protesta davanti alla presidenza del Consiglio denunciando di aver ricevuto una lettera dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali in cui, in seguito a una denuncia ricevuta da alcune associazioni, le si segnalava l’opportunità di utilizzare nei confronti delle persone mussulmane un linguaggio meno insultante ed evocatore di odio («i mussulmani sono tutti terroristi ») di quello da lei utilizzato, sempre su facebook. Nel rispondere ad una interrogazione parlamentare sulla questione per conto del governo, l’on. Boschi ha spiegato che scrivere questo tipo di lettere fa parte dei doveri dell’Unar, un’organismo istituito in base a una direttiva europea (che in realtà ne richiederebbe la piena autonomia, come una authority). Attribuzioni e forme di intervento sono stati definiti dall’ultimo governo di Berlusconi in cui l’on. Meloni era ministro.
Contestualmente, tuttavia, l’on. Boschi ha informato il Parlamento che era stata avviata, dalla presidenza del consiglio presso cui è collocato l’Unar, una indagine disciplinare nei confronti del direttore dello stesso. In questo modo, la presidenza non ha solo avvallato di fatto l’accusa di Meloni, trasformando l’accusatore, che ha fatto il proprio dovere, in accusato, con i connessi rischi sul piano professionale. Ha anche contribuito a spostare l’attenzione dai limiti della libertà di parola quando questa diventa arma contundente senza che le vittime possano difendersi, alla legittimità dell’Unar stesso e della sua opera di monitoraggio e moral suasion. C’è il sospetto che in entrambi i casi dietro a queste decisioni ci sia un qualche tipo di scambio politico. Nel caso di Calderoli ai fini di persuaderlo a non opporsi alla riforma costituzionale (sarà un caso che aveva ritirato gli emendamenti un giorno prima?). Nel caso Unar, la vicenda ha offerto l’occasione a chi — nel centro-destra, ma anche nel Ncd — voleva disfarsi di un direttore scomodo sul piano antirazzista ma anche del contrasto alla omofobia, quando non dell’Unar tout court, vincolandone ulteriormente la già scarsa autonomia, nonostante questi vincoli e scarsa autonomia politica siano in contrasto con la direttiva europea alla base della sua istituzione.
Il fatto che siamo purtroppo abituati a questi scambi, in cui a soccombere sono sempre i diritti civili (si pensi alla vicenda dei disegni di legge rispettivamente sulla omofobia e sulle coppie dello stesso sesso), non aiuta a comprendere e ad accettare che questo avvenga anche con l’avallo del Pd, senza che si capisca quanto queste furbizie, distrazioni, superficiali sottovalutazioni, contribuiscano a corrodere la vita e la cultura civili. La libertà di parola (dei parlamentari) da nobile valore sta diventando potere discrezionale di insulto razzista, sessista ed omofobico. Peggio per le vittime.