Repubblica 16.9.15
Budapest. il filo spinato che ferisce l’Europa
di Bernardo Valli
BUDAPEST LA CONOSCO da tempo. Quando l’incontrai la prima volta criticava da sinistra il “comunismo al gulash”. Lo chiamavano così perché era permissivo. Era una specialità comunista ungherese. Per l’intellettuale che allora si definiva marxista liberale, il regime riempiva le pance perché i cervelli non pensassero. Era un comunismo godereccio rispetto agli altri modelli al potere nell’area dell’impero sovietico. Una versione volgare dell’idea socialista. C’ erano persino le ragazze in minigonna e si vedeva che molte non avevano il reggiseno. Una vergogna per la conoscente che ritrovo dopo anni, più anziana e supernazionalista. I carri armati sovietici, sempre presenti, dopo avere stroncato nel ’56 l’insurrezione, lasciavano fare, non erano esigenti, in quegli anni Sessanta sulle sponde del Danubio, purché si rispettasse la fedeltà a Mosca. Adesso l’ex marxista liberale di un tempo, rimasta scrittrice, è per Viktor Orbán. È una sua ammiratrice. Anche se è il leader della destra. La sterzata ideologica mi stupisce, ma lei sorride ironica. I tempi sono cambiati. E con i tempi i problemi. Oggi non è più questione di destra e sinistra:è in gioco l’unità etnica della nazione raggiunta attraverso tanti drammi. Per questo approva che nelle ultime ore Orbán abbia chiuso la barriera di filo spinato lungo il confine con la Serbia e che ne prepari un’altra lungo quello con la Romania. L’Ungheria sarà così più protetta. La legge che Orbán ha appena promulgato e che condanna a tre anni i migranti illegali è una conseguenza di quel che accade. E naturalmente non poteva fare a meno di far arrestare decine di uomini e donne (173 secondo l’ultimo bilancio) dalla polizia e dall’esercito mandato a rincalzo nelle province di frontiera. Inoltre non è serio ritenere il primo ministro responsabile degli scioperi della fame di uomini e donne fermati dal filo spinato nella loro marcia verso la Germania. Lo spettacolo di migliaia di profughi assiepati davanti ai valichi e alle truppe schierate non è nuovo nella storia ungherese. Ma spesso le vittime erano i gendarmi di oggi. Devo rammentarglielo.
Il ministro degli interni, György Bakondi, ha annunciato la creazione di “una zona di transito” dove i rifugiati che si trovano in territorio ungherese saranno raccolti prima di essere rispediti in Serbia. La notizia mi riporta con la memoria a tanti anni fa, quando giovane cronista fui mandato al Brennero ad accogliere i profughi ungheresi, dopo la repressione sovietica del ’56. Ne arrivarono 250mila in Occidente. Fu il mio primo servizio giornalistico emozionante. Lo racconto all’ex intellettuale di sinistra, per ricordarle che mezzo secolo fa anche i suoi connazionali fuggivano in cerca di un asilo politico. La risposta è che oggi Orbán si trova di fronte a un’invasione di musulmani. Anche il clero ungherese è perplesso. Il primate d’Ungheria, il cardinale Péter Erdo, arcivescovo di Esztergom, è stato sibillino: ha detto che non è un trafficante di esseri umani.
Erano in pochi, due forse tre mila, sulla piazza davanti al Parlamento, a gridare “Orbán dittatore” e a esibire un distintivo con su scritto “Solidarietà”. Non c’era un solo poliziotto nei paraggi. E sulla sponda del Danubio il traffico continuava indifferente, come se quella manifestazione promossa dall’opposizione non fosse degna d’attenzione. Secondo Janos, agente di pubblicità e grande lettore di giornali, neppure le critiche a Orbán dei quotidiani, che sono frequenti e non censurate, neppure se appaiono sul
Népszabadság , il più diffuso, hanno un grande effetto sulla gente. Stando ai sondaggi meno di un terzo degli ungheresi si dichiara in favore di Orbán (ma il quarantuno per cento dei votanti). Lui, Janos, esperto in pubblicità, non pensa che il primo ministro abbia carisma, anzi non lo trova né colto né buon oratore, neppure spiritoso, ma ritiene che in questo momento interpreti i sentimenti di larga parte della popolazione. Anche di quella che non condivide la sua politica di destra sciovinista, e che tuttavia si riconosce nel suo rifiuto degli immigrati, avanguardie di una società multiculturale, destinata a inquinare la civiltà cristiana magiara.
In realtà Viktor Orbán ha il carisma che Janos non gli riconosce. Come non gliela riconoscono quasi tutti i non pochi scrittori e scienziati ungheresi conosciuti all’estero. L’opinione pubblica cui tiene Orbán è tuttavia un‘altra. Le élite lo interessano poco. A guidarlo nell’interpretare quel che pensano gli ungheresi è un ex restauratore di mobili: il suo guru è Árpád Habony. Il linguaggio popolare, lo sguardo acceso si adeguano alle inchieste di opinione che Habony conduce con squadre specializzate. Così Orbán trascina con sé quella larga parte della società frustrata dal comunismo e dal post comunismo di sinistra, rivelatosi corrotto e incapace. Sono sostenitori di Orbán gli agricoltori, gli operai, i piccoli borghesi diventati di destra per delusione o per convinzione, spesso portati alla xenofobia o all’insofferenza per le minoranze come i Rom, comunque animati dal forte nazionalismo di un paese che si sente accerchiato. Una base che si è compattata se non allargata negli anni del suo governo (1998-2002 e 2010-2015) perché ha capito di essere favorita, e destinata a sostituire negli affari, nel commercio, nella funzione pubblica, la parte di società dominante nel post comunismo, e spesso con radici nel regime precedente, quello del comunismo al gulash.
Viktor Orbán ha 52 anni. Ha avuto il tempo di essere uno dei responsabili della gioventù comunista e poi anche un militante nella campagna finale contro la presenza sovietica. Lo si ricorda con la barba e la voce forte chiedere la partenza dell’Armata rossa in piazza degli Eroi, nel cuore di Budapest. La sua tesi per la laurea in legge era sulla Solidarnosc polacca. Nato in provincia in una famiglia piccolo borghese calvinista ha poi sposato una cattolica, dalla quale ha avuto cinque figli. Dopo gli studi a Budapest, grazie all’aiuto della Fondazione Soros ( il miliardario progressista) ha fatto un breve soggiorno a Oxford, ma nella città universitaria inglese non ha assimilato l’uso dell’ understatement . Lui descrive l’Ungheria d’oggi come un paese accerchiato, sul punto di essere invaso. E su questo tema accende le fantasie ricorrendo alla storia, ai momenti cruciali del paese, anche quelli antichi, quando le popolazioni asiatiche scendevano nelle pianure che sarebbero diventate l’Ungheria. Le statue degli eroi nazionali ritornano, si moltiplicano sulle piazze. Capita a Orbán di ricorrere a formule contradittorie, stravaganti, come “democrazia illiberale”. Angela Merkel si stupì e fece dell’ironia sulla fervida immaginazione di Viktor Orbán.
Il cui stile ricorda quello di Putin. Sembrano sintomi di strabismo politico. Il primo ministro ungherese, alla testa di un paese dell’Unione europea, e membro della Nato, sembra avere come modello, almeno in parte, il presidente russo. Punta su riforme che non cancellano del tutto i riti democratici, ma che li limitano, adeguandoli ai suoi interessi. Controlla il mondo degli affari e quello imprenditoriale favorendo persone fidate. Anche lui ha i suoi oligarchi. A guidarlo nei problemi economici è Lajos Simicska, l’ex tesoriere di Fidesz, il suo partito. Simicska è l’uomo che ha raccolto i mezzi finanziari per la scalata al potere.La nazionalizzazione di alcuni servizi pubblici essenziali in mani straniere serve per assegnare la direzione a dei vassalli. E adesso starebbe per vendere ai privati 300mila ettari di terra e gli acquirenti prescelti, nessuno ne dubita, saranno suoi sostenitori. Con Putin ha ottimi rapporti. Si aspetta dal presidente russo aiuti economici, in particolare per la costruzione di una centrale nucleare.
Dal ritratto di Viktor Orbán si potrebbe ricavare l’impressione di un uomo politico instabile. In realtà non ha veri avversari all’interno perché l’opposizione di sinistra è divisa in due partiti in aperta tenzone: il partito socialista (12 per cento) e la coalizione democratica (13 per cento). Inoltre il tema della difesa da una società multiculturale, con una componente islamica, estende i consensi travolgendo il confine tra destra e sinistra. Punto di riferimento per altri paesi dell’Est (dalla Slovacchia alla Repubblica ceca, alle tre repubbliche baltiche) Viktor Orbán non è isolato nell’Unione europea. Non lo è nemmeno nel Partito popolare, nel Parlamento di Strasburgo, perché ha l’appoggio dei bavaresi della Csu. Senza contare gli sguardi teneri dei partiti populisti occidentali.