mercoledì 16 settembre 2015

Corriere 16.9.15
Le radici storiche della durezza ungherese
di Federigo Argentieri


Una ventina d’anni fa, quando l’Ungheria negoziava l’adesione alla Nato, le fu detto che una delle condizioni imprescindibili era di firmare trattati di buon vicinato con tutti i Paesi confinanti: detto e fatto, anche i rapporti con Slovacchia e Romania, tradizionalmente ostici per la presenza di forti minoranze magiare, furono regolati. Nel 1999, qualche giorno dopo l’ingresso ufficiale, la Nato iniziò un conflitto armato contro la Jugoslavia, altro vicino dell’Ungheria, per difendere una minoranza, cosa che comprensibilmente lasciò a dir poco perplessi sia i dirigenti di Budapest sia la popolazione.
L’adesione dell’Ungheria agli ideali europei ha sempre avuto aspetti paradossali: questa è una delle premesse per comprendere l’odierna politica del governo Orbán verso il colossale flusso migratorio che ha imboccato la «via balcanica». L’altra è che la tendenza quasi irresistibile dei media, soprattutto occidentali, a semplificare e fare uso di luoghi comuni e stereotipi non aiuta a mettere a fuoco tutti i contorni di tale politica. Da parte sua, il premier ungherese è convinto che fino a quando dureranno tali semplificazioni il suo potere, salvo imprevisti, sarà assicurato, più o meno in armonia con le leggi esistenti: come ha detto molto bene la sociologa Kim Scheppele dell’università di Princeton, il sistema politico creato da Orbán e dai suoi è «legale ma non leale» ( legal but not fair) , ma non è questa la sede per approfondire tale concetto.
Esempio tipico delle erroneità di cui sopra, oltre all’abuso dei termini fascista, razzista eccetera (categorie che certamente non si applicano a Orbán), è l’uso frequente del termine post togliattiano «invasione dell’Ungheria» per in-dicare quanto avvenuto il 4 novembre 1956: del tutto inesatto, in quanto l’Urss invase l’Ungheria scacciandone i nazisti nel 1944-45 e vi rimase ininterrottamente fino all’estate del 1991.
Giustamente, il governo serbo ricorda a Budapest che quando fu soppressa la loro rivoluzione democratica e pluralista (le cui lodi Indro Montanelli e altri cantarono assai bene su queste colonne), molte decine di migliaia di ungheresi fuggirono attraverso la Jugoslavia: infatti il maresciallo Tito, per controbilanciare l’assenso dato a Krusciov sull’intervento armato, aprì il confine e permise a chi lo desiderava di fuggire dalla repressione. Allora come oggi, però, la Jugoslavia e la Serbia erano e sono terra di transito, non di approdo: non per sminuire i meriti passati e presenti di Belgrado, ma se la Serbia (e la Macedonia) fossero già membri dell’Unione Europea, le loro politiche sarebbero certamente assai diverse. Il ricordo della battaglia vinta 559 anni fa dalla coalizione ungaro-serba, capeggiata dal frate abruzzese Giovanni da Capestrano, che ritardò di settant’anni l’invasione turca dei Balcani, non è stata rimosso né eliminato, anzi: è parte importante dell’identità europea di questi Paesi di frontiera, che contrariamente a quelli occidentali, Italia in primis , hanno un culto quasi ossessivo, anche se spesso selettivo, della memoria storica.
Parlando di rifugiati, comunque, è bene ricordare che l’Ungheria di Horthy nel 1939 aveva dato asilo a varie migliaia di polacchi, mentre dieci anni dopo quella di Rákosi accolse numerosi profughi dalla Grecia, dove la guerra civile si era risolta in una sconfitta per le forze di sinistra; inoltre, che l’apertura della «cortina di ferro» nella primavera del 1989 avvenne grazie al governo ungherese, al quale furono riconosciuti meriti decisivi nella riunificazione della Germania.
Naturalmente tutto ciò non deve suonare come una difesa ufficiale di Orbán, che si sta ergendo a simbolo del populismo identitario europeo: se le forze che si oppongono a quest’ultimo ragionano e comprendono, possono prevalere, ma se si limitano all’anatema sono destinate a soccombere.