domenica 13 settembre 2015

Repubblica 13.9.15
Sui migranti il premier c’è ma non sogna un’Europa federale
di Eugenio Scalfari


RENZI ieri mattina ha disdetto tutti gli impegni che aveva preso nel fine settimana ed è partito per New York per assistere alla finale degli Us Open di tennis tra le due italiane Flavia Pennetta e Roberta Vinci che il giorno prima avevano sgominato le due giocatrici più forti del mondo. Non era mai accaduto che due italiane si contendessero la finale e il presidente del Consiglio ha voluto esser presente a questo confronto eccezionale che corona a suo modo la ripresa economica e politica del nostro Paese dopo anni di triboli e di recessione.
Un fatto analogo era accaduto molti anni fa quando, in occasione della finalissima dei mondiali di calcio in Spagna, Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica, era andato a Madrid accolto dal re Juan Carlos ed era poi tornato ospitando nel suo aereo la squadra vittoriosa e giocando a carte con i giocatori.
Del resto, in questi stessi giorni, Berlusconi è andato in Crimea ospite di Putin, ha deposto un mazzo di fiori davanti alla stele che ricorda i caduti italiani nella guerra di Crimea del 1853 in cui entrò Cavour per dare al regno di Piemonte un livello europeo e facilitare l’alleanza con Napoleone III nella guerra del 1859. Berlusconi, dopo questo improvviso sfoggio culturale, ha consigliato a Putin di battersi per sconfiggere in Siria i terroristi del Califfato. Dunque quando l’ex Cavaliere di Arcore dice che Renzi è il suo “figlio buono” non sbaglia: Renzi conosce benissimo il modo per sottolineare un evento che nulla ha a che vedere con la politica e con l’economia ma soltanto con il consenso popolare.
UN figlio buono, anzi buonissimo e non lo dico con ironia ma faccio una semplice constatazione. Una constatazione analoga ed anche più notevole debbo farla per la lunga lettera aperta da lui inviata al direttore del nostro giornale e da noi pubblicata venerdì scorso. È un documento che rivendica il ruolo dell’Italia sul tema degli immigranti dal Sud e dall’Est del mondo, la nostra presenza nel salvataggio di centinaia di migliaia di vite, nella pressione esercitata a Bruxelles affinché quel tema, quel riconoscimento dei valori e dei diritti dei quali gli immigranti sono portatori, diventassero l’impegno principale che l’Europa doveva assumere.
In un certo senso il nostro presidente del Consiglio ha preceduto la Merkel ed ora l’Italia è il Paese più vicino alla Germania e ovviamente il più lontano dai populismi antieuropei alla Salvini nonché alla “politica dei muri” dei quattro Paesi dell’Est europeo, della Danimarca e dei conservatori inglesi.
Sono segnali — quelli di Renzi nella lettera a noi diretta — che finalmente, almeno sul tema dell’immigrazione, mettono in atto concretamente una politica nuova, moderna, positiva, che accomuna i partiti moderati e quelli di una sinistra riformatrice, dando voce all’Europa come noi la vorremmo e la vogliamo. Perciò: bene Renzi se continua così. *** In quello stesso numero di venerdì scorso del nostro giornale c’è anche un’intervista del collega Andrea Tarquini con Lech Walesa, storico fondatore del sindacato Solidarnosc che fu un sindacato cattolico e rivoluzionario della Polonia dominata dall’Urss, della quale era allora arcivescovo Wojtyla, che poi fu eletto papa col nome di Giovanni Paolo II.
Walesa accetta in pieno la politica aperta ai migranti seguendo in questo la predicazione e l’insegnamento di papa Francesco, ma pone anche un altro problema: quello dell’Europa unita e federale senza la quale gli Stati nazionali del nostro continente affonderanno. Conviene citarlo per capire fino in fondo il suo pensiero: «L’Europa sta perdendo i suoi valori solidali. Abbiamo coltivato i nostri valori solo nel giardinetto dei piccoli Stati nazionali. L’Europa deve saper dire addio agli Stati nazionali e farsi struttura globale, aperta, democratica, moderna. Lo Stato nazionale di oggi ben presto apparirà anacronistico folclore. Oggi servono su tutti i temi e problemi soluzioni europee e valori globali. Il passo finale di questa politica deve essere la Costituzione, la carta fondamentale che ancora manca all’Europa. L’America fece questo, oltre ad aprirsi ai migranti di tutte le provenienze ed oggi, non a caso, è il Paese numero uno del mondo intero ».
Così dice Walesa, fondatore di quella Solidarnosc che rivoluzionò la Polonia e inferse la prima ferita alla dominazione dei sovietici in quegli anni ormai lontani. E così dice anche la nostra presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha mobilitato su questo stesso tema i presidenti delle Camere di Francia, Germania e Lussemburgo che comunicheranno lunedì prossimo al presidente Mattarella questa loro risoluzione.
Renzi concorda con l’obiettivo qui delineato? Temo proprio di no. Gli piace l’Europa degli Stati nazionali confederati; ambisce di essere uno dei leader di quella Confederazione della quale l’Italia fu uno dei fondatori nel lontano 1957; ma non accetterà un declassamento degli Stati nazionali a membri d’uno Stato federale. Questo è un handicap molto grave. Purtroppo condiviso da gran parte dei capi di governo dell’Ue. Se la Germania si muovesse in questa direzione, se la sinistra europea facesse altrettanto, allora forse la Federazione europea diventerebbe possibile. Su questo punto Renzi non risponde e non ne parla. Ha fatto benissimo a volare a New York, meriterebbe d’essere accolto al ritorno da quella canzone cantata splendidamente da Frank Sinatra, ma il problema dell’Europa federale è alquanto più importante e da lui la risposta finora non è venuta. ** * È questa dell’Europa federata la sola carenza di Matteo Renzi di fronte alle esigenze d’una moderna democrazia e d’una moderna sinistra? Risponde con una frase molto chiara Piero Ignazi in un articolo di ieri sul nostro giornale: «La spada di Brenno appartiene ai barbari, l’”agorà” all’alba della civiltà. Se c’è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Renzi perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. Questo è il tema e il problema e anche per questo un Senato potrebbe servire». Così conclude Ignazi e questa, a mio avviso, è la realtà dello scontro.
L’arbitro della verifica è il presidente del Senato il quale deve giudicare ammissibile il voto del Senato sul contestato articolo 2 della legge di riforma costituzionale. Questo dispone la Costituzione, come Gianluigi Pellegrino ha dimostrato venerdì su “Repubblica”. Grasso non ha in materia alcun margine di discrezionalità: quell’articolo dev’essere ridiscusso, quale che ne sarà il risultato.
Qualora accadesse, quando si arriverà al voto, che il governo fosse battuto dalle opposizioni e dalla minoranza interna al Pd, dovrebbe dimettersi? L’obbligo in Costituzione non è previsto a meno che il governo non ponga la fiducia, il che su una legge di riforma costituzionale è del tutto improprio anche se esistono alcuni precedenti in proposito.
Comunque, ove mai il governo si dimettesse (cosa che mi sembra improbabile ed anche non auspicabile) il presidente della Repubblica ha fatto sapere, sia pure in forma non ufficiale, che non ha alcun motivo per sciogliere le Camere, il che del resto è evidente. Il problema riguarda soprattutto l’opposizione interna al Pd la quale, su una legge costituzionale, non ha alcun vincolo di mandato politico.
Un Renzi battuto ma non dimissionario avrebbe probabilmente pieno appoggio dalla sua minoranza nelle leggi sul lavoro, sulla crescita e sull’equità sociale. Sarebbe, da tutti i punti di vista, un auspicabile risultato.
P.S. Alcuni giorni fa, in uno suo articolo editoriale in prima pagina del “Corriere della Sera”, Paolo Mieli ha segnalato un mio supposto errore con le seguenti parole: «Giova ricordare ad Eugenio Scalfari che l’estate scorsa ha sollevato dubbi circa l’opportunità di alcune prese di posizione di Giorgio Napolitano a favore del completamento dell’iter di riforma costituzionale, che nel 2006 a capo della campagna abrogazionista si pose l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e poté farlo senza che in alcun modo il suo successore Carlo Azeglio Ciampi se ne dicesse turbato ».
Mieli è lui che sbaglia. Scalfaro si era messo a capo di una campagna referendaria e Ciampi non obiettò perché era un fatto del tutto lecito. I miei rilievi riguardano invece l’iter parlamentare di una legge di riforma che ancora non è stata approvata e neppure discussa fino in fondo. Questo mi sembra irregolare. Non guidare una campagna referendaria a legge già approvata dal Parlamento.