giovedì 10 settembre 2015

Repubblica 10.9.15
Quando a fuggire dai paesi dell’Est erano i tedeschi
La lezione dimenticata di una tragedia del Dopoguerra
di Guido Crainz


L’hanno conosciuta drammaticamente settant’anni fa, milioni di tedeschi, la fuga disperata dai drammi di un feroce dopoguerra. Undici, dodici milioni in fuga dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria e da altri paesi ancora — luoghi ove avevano vissuto per generazioni — verso una Germania distrutta. In fuga dalle violenze dell’Armata rossa ma anche da popolazioni che il nazismo aveva perseguitato e sterminato e ora si scagliavano contro chiunque parlasse tedesco. In fuga già nell’inverno del 1944-45, ed è un giornale svizzero a descrivere «una di queste colonne di gente spaurita. Duemila cavalli esausti dalla fatica trascinano pesanti veicoli con sopra ventimila persone: uomini anziani, donne, ragazze e bambini ai quali si congelano le membra e il cuore non regge alla fatica. Quando hanno sete la placano soltanto con un po’ di neve; mangiano se ne hanno. Quando la neve si scioglierà, molti di questi miseri saranno trovati morti sulla strada, nei campi, nei prati». Una storia che L’usignolo dei Linke di Helga Schneider (Adelphi) racconta con due sguardi: quello di un bambino che ha vissuto il trauma della fuga davanti all’Armata rossa e ne resta segnato a vita, e quello di una bambina cacciata a forza con la sua famiglia dalla Polonia dell’immediato dopoguerra.
Si valuta che siano almeno un milione le vittime di questa fuga disperata iniziata alla fine della seconda guerra mondiale e proseguita con le espulsioni del dopoguerra: “selvagge”, prima, e sancite poi dalla Conferenza di Postdam. Alimentate al tempo stesso da una volontà di rivalsa e da un “nazionalismo etnico” che i regimi filosovietici fecero propri e che utilizzarono per conquistare consenso. Nel 1938 la Cecoslovacchia era formata solo per due terzi da cechi e slovacchi, dopo questi processi saranno quasi la totalità: alle espulsioni dei tedeschi si aggiungono quelle di ungheresi e di altre minoranze ancora, e non è diverso il rimodellarsi della Polonia. Un secondo, profondo modificarsi di un’Europa centro-orientale già sconvolta dallo sterminio e dalla cancellazione della presenza ebraica. I drammi del dopoguerra si svolgono appunto nell’Europa devastata dal nazismo, e possiamo persino comprendere perché poche voci si siano levate allora contro quelle disumanità. Fra democrazia e nazismo vi è certo contrapposizione di valori — scriveva, isolatissimo, l’ungherese István Bibó — ma «non vi è differenza fra il dolore di una madre il cui figlio è stato ucciso in un campo di sterminio tedesco e quello di una madre tedesca il cui figlio, morto di fame in un campo di concetramento cecoslovacco o per strada durante una marcia forzata, viene seppellito avvolto in un foglio di giornale. Se il numero di queste madri dovesse moltiplicarsi in Europa non troveremmo più nessuno a cui spiegare quale differenza vi sia fra la democrazia e il totalitarismo». Parole terribili, come è terribile questa storia: poche altre voci si aggiunsero, e possiamo comprendere perché allora esse siano rimaste isolate. Comprendiamo molto meno perché ancora negli anni Novanta una grandissima parte di polacchi, cechi e slovacchi ritenesse sostanzialmente fondata l’epulsione dei tedeschi da quelle terre. Anche con questo — come ha ricordato su Repubblica Bernardo Valli — dobbiamo fare culturalmente i conti: con le modalità drammatiche con cui i paesi dell’Europa centrale hanno raggiunto una omogeneità etnica.
Va anche ricordato che le due Germanie devastate del dopoguerra seppero sostanzialmente accogliere quei milioni di profughi: non senza tensioni ma senza farne la ragione di rivalse e di revanscismi. Tentazioni presenti nella prima fase ma progressivamente stemperate e dissolte (forse vi è anche questo alla base dell’altro miracolo che fu compiuto dopo il 1989, con la riunificazione non traumatica di due realtà così profondamente differenti). Il resto dell’Europa occidentale preferì rimuovere quei drammi e i nodi di lungo periodo che essi facevano emergere. Preferì distogliere lo sguardo e poi cancellare quelle pagine dai manuali di storia (con poche eccezioni anche negli studi). Se non lo avessimo fatto capiremmo forse meglio che lo scontro fra due idee di Europa di questi giorni non ci parla di un inaspettato e incomprensibile altrove.