Corriere 10.9.15
Diffidenza e partiti xenofobi Anche nel Nord «solidale» vacilla lo spirito di assistenza
di Maria Serena Natale
ROSZKE Una foto scuote la Danimarca che chiude i collegamenti con la Germania per fermare i clandestini. Un uomo con la camicia a quadretti che sputa da un ponte, sotto il ponte passano gli immigrati. Anche nel Nord ricco e solidale l’esodo spacca l’opinione pubblica, porta in superficie contraddizioni, fa uscire gli spettri dai castelli.
A Copenaghen l’immigrazione era stata il grande tema delle elezioni di giugno. Fuori la socialista Helle Thorning-Schmidt, dentro il premier liberale Lars Lokke Rasmussen, che oggi guida un governo di minoranza sostenuto dalla destra del Partito del popolo di Kristian Thulesen Dahl. «Non venite in Danimarca», dice ora lo spot lanciato dall’esecutivo Rasmussen per dissuadere i profughi siriani ancora in Libano dal cercare un’altra vita in Europa. Il centrosinistra aveva incentrato la campagna sul ridimensionamento dei sussidi per gli immigrati. Misura varata dal nuovo governo subito dopo l’insediamento.
I populisti hanno costretto socialisti e conservatori a inseguirli sui dossier più sensibili. Pur mantenendo gli elevati standard sociali conquistati nel Novecento, nessun Paese dell’Europa settentrionale è rimasto impermeabile alle inquietudini per la crisi economica e l’allarme terrorismo. Negli ultimi vent’anni le destre nazionaliste e xenofobe hanno visto una crescita costante. È successo per i Democratici svedesi, per i Finnici (gli ex «Veri finlandesi»), per il Partito del progresso in Norvegia. Formazioni che ricevono da sistemi elettorali altamente rappresentativi mandato forte e ampio margine di manovra in Parlamento. Che con una retorica incendiaria che lascia poco spazio al contraddittorio dominano il dibattito pubblico e influenzano le decisioni. Fenomeno tanto più naturale quando al timone ci sono centrodestra indeboliti dall’erosione dei consensi a favore degli estremisti. Malgrado Finnici e Partito del progresso abbiano subito un lieve calo nelle ultime consultazioni, sono comunque andati per la prima volta al governo dopo i voti del 2015 e del 2013.
Nonostante manifestazioni di solidarietà come quella del premier finlandese Juha Sipila che ha messo a disposizione dei rifugiati la propria casa o del magnate norvegese Petter Stordalen che ha offerto cinquemila posti nei suoi hotel, i numeri generali fotografano un quadro in chiaroscuro. Nella prima metà del 2015 Paesi come Norvegia e Finlandia, ma anche l’Islanda della grande mobilitazione sul fronte dell’accoglienza, hanno accettato fino a 15 mila rifugiati l’uno, decisamente meno dei 75 mila della Svezia che con dieci milioni di abitanti è la nazione europea con il più alto tasso di immigrati pro capite. Eppure, secondo i dati dell’indice Ocse del 2013, è anche la seconda per livello di disoccupazione tra gli stranieri: 2,6 volte più alto che per i nativi (la prima è la Norvegia). Un sistema sociale egualitario, dove però la discriminazione corre sul filo di sottili differenze, come quelle nella padronanza della lingua, che sul lavoro è il primo spartiacque. Il Nord del mondo ha paura di cambiare. L’Europa però è già diversa.