martedì 8 settembre 2015

La Stampa TuttoLibri 5.9.15
“Sulla collina dove i coloni si credono inviati di Dio”
Uno scrittore infiltrato negli insediamenti illegali di Cisgiordania
di Maurizio Molinari


«C’è chi arriva per coltivare la terra e chi perché crede in Dio, chi per caso e chi per scelta, sono laici e religiosi, uomini e donne, ma ad accomunarli è una carica ideologia assai profonda»: a descrivere gli abitanti degli insediamenti ebraici in Cisgiordania è Assaf Gavron, lo scrittore che vi ha ambientato La Collina.

Il romanzo è ambientato a Maaleh Hermesh C, un insediamento a Sud di Gerusalemme assai simile a Tekoa Dalet che Gavron ha frequentato per quasi due anni. «Ho scelto di andarci per conoscere dal di dentro una realtà che politicamente non condivido ma che sentivo il bisogno di esplorare» spiega, facendo il paragone con il suo romanzo del 2006 - tradotto in dieci lingue - La mia storia, la tua storia incentrato sulla figura di un terrorista palestinese. «Vivo a Tel Aviv, sono laico, amo questo Paese e non mi riconoscono in nulla di quanto sono gli insediamenti in Cisgiordania - sottolinea - ma vi ho ambientato La Collina per consentire ai lettori di toccarli quasi con mano, senza pregiudizi».
Nasce così la storia di Othniel Assis, il protagonista, appassionato coltivatore di pomodori e verdure che quasi per caso partecipa alla genesi di un insediamento che poi si sviluppa come un lampo attorno a lui, vedendo l’arrivo delle persone più diverse che Gavron descrive «come un caos continuo o forse come uno shuk» il mercato mediorientale «dove c’è di tutto». «E’ impossibile tracciare un identikit dei coloni perché sono diversi come la popolazione di una grande metropoli» sebbene ad accomunarli è «la forza di un’ideologia basata sulla convinzione che quella terra gli è stata assegnata da Dio».
Se a prevalere, pagina dopo pagina, è un’atmosfera di crescente confusione - descritta con humour - è «perché si tratta di un mondo governato da un groviglio di leggi e norme burocratiche che si contraddicono le une con le altre» portando «i coloni a costruire case a volte permesse, altre illecite e quindi distrutte dai soldati che poi però se ne vanno, con gli abitanti che ricominciano a costruirle subito sfoderando martello, travi e chiodi».
Al centro di questo conflitto interno alla società israeliana c’è la figura di Omer Levkovich, il comandante militare che facendo rispettare leggi e limiti finisce per trasformarsi da difensore - contro i terroristi arabi - in avversario dei coloni. «E’ una vicenda che ci riporta ai nostri giorni, all’estremismo di chi ha compiuto l’orrendo delitto di Douma, bruciando un bambino palestinese di appena 18 mesi, e che si scontra con i soldati perché rifiuta Israele come Stato» spiega Gavron, riferendosi agli estremisti ebrei di «Price Tag», il movimento che attacca chiese, moschee e civili arabi.
Nella Collina questi «terroristi ebrei», come li chiama il presidente israeliano Reuven Rivlin, vengono raccontati mentre danno fuoco a uliveti palestinesi con violenza: «Sono portatori della più feroce delle intolleranze - dice Gavron - e, pur essendo una minoranza estremamente ridotta, godono purtroppo della tacita complicità di molti». Ciò che più colpisce è come questi «terroristi ebrei» contestino Israele, vogliano rovesciarne le istituzioni democratiche finendo per essere «anti-sionisti veri» proprio come negli Stati Uniti i movimenti di estrema destra dei suprematisti bianchi sono «anti-americani» proponendosi di abbattere il governo federale.
Sulla Collina ci sono anche due «eroi»: si tratta di Gabi e Roni che arrivano nell’insediamento per motivi non ideologici, alla ricerca di riscatti personali, e riescono in qualche maniera a reinventarsi. In comune hanno le origini nei kibbutzim, le comunità agricole che contribuirono a far nascere lo Stato di Israele nel 1948, e ciò porta Gavron a tracciare un parallelo fra «i pionieri di allora e quelli di oggi». Anche per questo uno dei protagonisti del libro legge nell’insediamento Ladri nella Notte, il libro di Koestler ambientato proprio nei kibbutzim.
«All’origine di Israele erano i kibbutzim le comunità più ideologiche ed ora vale lo stesso per gli insediamenti» spiega Gavron, suggerendo come «in comune hanno anche il fatto di essere gruppi chiusi all’esterno, dove i panni sporchi si lavano in casa». Ma gli ultimi 60 anni hanno visto declinare il kibbutz «a causa dell’incapacità del modello comunitario socialista di resistere all’impatto del capitalismo» e la scommessa di Gavron è che «forse anche gli insediamenti faranno una fine analoga» come «la pressione della modernità» che «porta a convivere assieme agli arabi, e non a separarsi da loro costruendo recinti». Ma si tratta di una prospettiva «lontana nel tempo», ammette, «perché al momento ciò che si impone è la determinazione dei coloni che, qualsiasi cosa si dica a Washington o Gerusalemme, tornano sempre sulle colline a costruire pareti».