martedì 22 settembre 2015

La Stampa TuttoLibri 19.9.15
Anche l’indifferenza è un tiranno: sconfiggetela con un romanzo
Solo l’immaginazione ci salva dalla dittatura
Dopo “Lolita a Teheran” un nuovo inno alla libertà dell’immaginazione: come salvare la democrazia con le storie di Twain, Lewis, McCullers
E nelle democrazie non spetta solo ai politici difendere la libertà: ogni individuo è tenuto a lottare contro l’indifferenza del benessere
di Azar Nafisi


Se dovessi risalire alle origini della Repubblica dell’immaginazione, direi proprio che cominciò tutto a Roma, o con Roma! L’idea, per esser più precisi, mi venne la prima volta nel 2004, quando scrissi un discorso per il Festival internazionale delle Letterature di Roma. Qualche mese dopo, il 5 dicembre 2004 il «Washington Post Book World» ne pubblicò una versione diversa e abbreviata, con il titolo di Republic of Imagination. In onore della nascita italiana del mio libro e del ruolo che l’Italia ha avuto nel suo concepimento, vorrei riportare in vita quella magica serata di Roma aprendo e concludendo questo articolo con i passaggi che aprirono e conclusero il mio intervento di allora.
«Celebro questo paese che tanto spesso avevo già visitato con l’immaginazione prima che nella realtà, fra persone delle quali non parlo la lingua ma con cui condivido un linguaggio comune e universale che sfida tutti i confini geografici. Questa Italia vera e reale dove mi trovo oggi sarà sempre legata nella mia mente e nel mio cuore a quell’altra così piena di magia che ho scoperto per la prima volta grazie ai prodigi dell’immaginazione, nei film, nei romanzi, nell’arte e nella musica. Da bambina, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Sophia Loren e Gina Lollobrigida non mi erano meno noti dei loro omologhi iraniani. In seguito, una schiera di registi con i nomi che quasi per magia finivano tutti con la stessa vocale, la “i”, lasciò un’impronta profonda sulle mie idee e i miei ideali: Fellini, Antonioni, Pasolini, Rossellini, Minnelli, Bertolucci. Alcuni decenni dopo, quando qualcuno decise di cambiare il nome del mio paese da Iran a Repubblica islamica dell’Iran e parecchi cinema dove avevo visto quei film furono chiusi o incendiati, per otto anni di guerra, tra un oscuramento e l’altro, tra gli urli delle sirene e il fragore delle bombe, ho continuato a guardare con amici e parenti le videocassette proibite dei vecchi film della mia infanzia e della mia gioventù, insieme a quelli più recenti che venivano introdotti clandestinamente in Iran. Quante volte, e in quanti soggiorni pieni di amici e semplici conoscenti ho visto Nuovo cinema Paradiso, e mi sono commossa senza pudori vedendo tutti quei baci censurati che toccavano il cuore anche dei meno romantici fra noi. Così, i colori di Tiziano, Caravaggio e Leonardo sono entrati a far parte delle luci e delle ombre dei miei sogni; e mi ricordavo le arie delle opere di Verdi come se fossero state scritte nella mia lingua.
«E poi c’era l’Italia che prendeva forma grazie all’immaginazione di scrittori e poeti, italiani e stranieri. Prima ancora di vedere i quadri di Filippo Lippi e Andrea Del Sarto li ho scoperti nelle poesie di Robert Browning, ed ero già stata a Roma, a Napoli, a Venezia e a Trieste grazie ai racconti di James, Mann, Moravia, Ginzburg, e di tutti quegli scrittori italiani i cui nomi terminavano in “o”: Eco, Calvino e il mio amatissimo Italo Svevo, di cui ero riuscita a scovare La coscienza di Zeno in una libreria dell’usato di Teheran. L’altro giorno, in mezzo ai quaderni che avevo portato con me negli Stati Uniti dalla Repubblica islamica ho ritrovato un pezzetto di carta dove avevo annotato una citazione da Primo Levi; i suoi libri, con tutta la loro saggezza, mi hanno aiutato a superare alcuni dei momenti più difficili e disperati della mia vita sotto il regime islamico. Levi ci ricorda che, siccome la vita nel campo di concentramento riduce l’uomo a una bestia, “noi bestie non dobbiamo diventare ... e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà”.
«Ho visitato anche tanti altri paesi, la Francia, la Russia, l’Inghilterra, l’America, l’Egitto e la Turchia. Così, fin dalla prima infanzia ho avuto in mente la mappa di un mondo che non aveva confini geografici, ed era popolato da uomini come Dante, Racine, Shakespeare, Boccaccio, Goethe, Tolstoj e Hafiz. Sono stati quel mondo e i suoi illustri abitanti, quella pluralità di lingue, colori e leggi a farmi capire per la prima volta quanto la creazione e la salvaguardia di una vera democrazia dipendano da ciò che potremmo chiamare un’immaginazione democratica».
«I lettori nascono liberi e liberi devono rimanere» ricordò Vladimir Nabokov ai suoi studenti. Prima di essere una scrittrice sono stata una lettrice, e i miei libri celebrano l’atto della lettura». «Da bambina mi resi conto che attraverso le storie potevo invitare nella mia cameretta il mondo intero, ma presto scoprii che la realtà era fragile e che era facilissimo perdere tutto quel che rientra sotto il nome di casa. A tredici anni fui mandata a studiare in Inghilterra. Fu la prima lezione che ebbi sulla provvisorietà e l’incostanza della vita. L’unico modo che avevo per ritrovare la mia Teheran perduta e sfuggente era affidarmi ai ricordi e a qualche libro di poesia che avevo portato da casa. In quelle notti tristi, nella piccola città umida e grigia di Lancaster, mi infilavo sotto le coperte con la borsa dell’acqua calda e aprivo a caso uno dei tre libri che avevo sul comodino: Hafiz, Rumi e una poetessa persiana contemporanea, Forugh Farokhzad. Allora non sapevo che in quel modo mi stavo già costruendo una nuova casa, una casa portatile, che nessuno avrebbe potuto togliermi. In seguito, prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, mi adattai ad altre nuove case e le seppi accettare con l’aiuto degli amici e dei familiari che incontrai in Sterne, Swift, Fielding, le Brontë, Austen, Auden, Shakespeare, Melville, Poe, O’Connor, Faulkner, McCullers, Baldwin, Dickinson e altri.
Capii a fondo solo nel 1979 quanto sia importante l’immaginazione quando si lotta per conquistare e custodire le libertà individuali e i diritti umani. Quell’anno tornai in Iran subito dopo la Rivoluzione islamica, e compresi che l’esilio più duro è quello in cui non ci si sente più a casa in casa propria. Che i regimi oppressivi prima brucino i libri e poi uccidano le persone non era più un concetto astratto e non faceva più parte delle esperienze degli altri; era diventato un aspetto della mia realtà personale e una parte integrante della mia esperienza quotidiana. Il regime islamico prese di mira innanzitutto i diritti umani e le libertà individuali, tutto quello che suggeriva differenza e diversità, e le sue prime vittime furono le donne, le minoranze e la cultura. Oltre a emanare leggi contro le donne e le minoranze, colpì gli scrittori, i poeti, gli artisti, i musicisti, i giornalisti. Disse che gli studi accademici, umanistici e sociali in particolare, erano nocivi. L’ayatollah Khomeini giunse a definire le università «la fonte di ogni sciagura»; erano più pericolose delle bombe. Presto furono chiuse in nome della «Rivoluzione culturale», la resistenza e i cortei universitari furono repressi, e così molti persero la vita o i mezzi per vivere.
Non sorprende che siano finite sotto attacco proprio le arti e le discipline umanistiche. I capolavori dell’arte, della letteratura e della filosofia minacciano le tirannie perché incoraggiano a pensare liberamente, immaginare, mettere in discussione le idee preconcette e l’autorità stabilita. Nessun sermone, nessuna forma di correttezza politica può sostituire la profonda empatia che nasce dall’immaginazione, quando questa ci fa vivere le esperienze di altre persone e ci apre gli occhi su idee e punti di vista di cui ignoravamo l’esistenza. Nel 1997, al mio ritorno in America, mi accorsi in fretta che purtroppo i tiranni sanno molto meglio di certi nostri leader democratici come l’immaginazione e le idee insidino il loro dominio assoluto. Loro sono pronti a uccidere per soffocare la libertà di scelta e d’espressione, ma molti altri sono pronti a perdere il lavoro, la sicurezza e a volte anche la vita per proteggere il loro senso di integrità personale e il diritto di essere come vogliono. Si può arrivare a dire che ai dittatori faccia più paura la cultura democratica dell’Occidente che il suo potere militare, ed eppure la cultura democratica non è un monopolio dell’Occidente: appartiene a tutti quelli che lottano per lei e vi sono votati, a prescindere dalla loro provenienza. Come il totalitarismo, anche la democrazia può esistere ovunque, in Oriente e in Occidente, e non può sopravvivere senza un’immaginazione democratica.
Del resto, per sapere queste cose non bisogna necessariamente vivere in una società oppressiva. Oggi stiamo affrontando, non solo in America ma nella gran parte delle democrazie, una crisi che non si limita all’economia o alla politica; le nostre difficoltà economiche e politiche in realtà si fondano su una crisi di visione. La visione è, come disse Swift, «quel che è invisibile agli altri», e proprio per questo non può esistere senza l’immaginazione. Nelle democrazie non spetta solo ai politici ma a tutti i cittadini difendere quelli che considerano i loro diritti e libertà. E la libertà, come ci ha ricordato Saul Bellow, ha il suo prezzo; i suoi «patimenti».
Molti grandi scrittori ci ammoniscono che la sua nemica numero uno è l’indifferenza di quando preferiamo la comodità al rischio, il nostro appagamento alla compassione, l’ideologia e le banalità allo scambio autentico e all’apertura verso la critica e l’autocritica, l’avidità alla passione, l’intrattenimento alla riflessione, la correttezza politica alla curiosità e all’empatia. La mancanza di libertà attecchisce su una mentalità utilitaristica e mercenaria che promuove la ricerca del mestiere a discapito della ricerca della conoscenza, e così facendo isola la scienza e la tecnologia dalle scienze umane e dalle discipline umanistiche, privandole tutte del loro vero significato e obiettivo. La domanda è: possiamo affrontare gli immensi problemi che ci si presentano oggi se non siamo capaci di immaginare il passato, di riflettere sul presente e di scorgere le opportunità di cambiare immaginando il futuro? Possiamo vincere le «guerre» contro il terrorismo senza la conoscenza autentica e l’empatia verso chi vive sotto la supremazia del terrore? Possiamo combattere i nostri nemici senza capire chi sono, perché agiscono così o, in altre parole, senza metterci nei loro panni? E possiamo salvare l’ambiente senza la scienza, che ce lo fa conoscere, e la capacità di immaginare le conseguenze dei nostri danni? Possiamo educare i nostri figli a diventare cittadini responsabili, a compiere le giuste scelte in questo mondo commerciale, in questa società dei consumi dove tutto, dai dentifrici ai candidati elettorali, viene confezionato, inventato, reinventato, e dove i soldi - non la passione e la compassione - regnano sovrani? Come rispondiamo a queste domande noi, in quanto lettori? La questione dei diritti umani e dell’immaginazione non è al primo posto solo in Cina, in Iran o in Arabia Saudita. Credo, come Ray Bradbury, che «Non c’è bisogno di bruciare i libri, per distruggere una cultura. Basta fare in modo che la gente smetta di leggere».
Come affrontiamo questi temi noi, in quanto lettori? E i libri possono aiutarci a risolvere i nostri problemi reali? Mi sono sempre posta queste domande e sono sempre arrivata alla stessa risposta: anche l’immaginazione e il pensiero, come i diritti umani e la libertà, trascendono le barriere di tempo, luogo, nazionalità, religione, etnia, lingua, razza, genere, e creano uno spazio universale dove non solo celebriamo le nostre differenze ma riconosciamo la nostra comune umanità. Ecco perché sono insostituibili, in termini molto pragmatici; ci ricordano che tutti partecipiamo alla lotta umana e ci permettono di cogliere nel profondo la voce e il cuore di chi è diverso da noi. La democrazia dipende dall’immaginazione.
Perché fin dall’alba dei tempi gli uomini e le donne sentono il bisogno di raccontare storie? Le cose che dissi a Roma più di undici anni fa sono ancora vere: «E abbiamo bisogno di scrivere di quegli avvenimenti, di raccontare quello che è successo a noi e agli altri per salvarci dalla disperazione, per ricordare a noi stessi e al mondo che abbiamo vissuto e per raccontare la vita attraverso i nostri occhi, e così recuperare tutto ciò che i tiranni hanno voluto sottrarci. Contro l’indecenza e la brutalità dei campi di concentramento, sulla soglia della morte e privi di qualsiasi diritto, uomini come Levi e Osip Mandel’štam cercarono conforto nella poesia. Per Levi, ricordare i versi di Dante e insegnarli a un compagno di prigionia era diventato più importante della razione quotidiana di pane, e più tardi volle scrivere di quella sua esperienza per comprenderla a fondo e per «ridiventare uomo, uno come tutti».
«Sono arrivata alla fine della mia storia, e vorrei concludere citando Italo Calvino, che ben sapeva la necessità per i singoli e le comunità di riflettere continuamente su se stessi, e di cambiare mediante l’empatia e la libertà che soltanto un’immaginazione democratica può assicurare: “... e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste”».
© Azar Nafisi, 2015
[traduzione di Mariagrazia Gini e Roberto Serrai]