La Stampa 9.9.15
Orban, il “cattivo” d’Europa che tiene testa alla cancelliera
Il leader ungherese: “Finiremo il muro in una settimana”
di Bruno Ventavoli
Forse per capirlo bene bisogna guardarlo mentre gioca a calcio. Perché Orban, padre padrone dell’Ungheria conservatrice, adora indossare gli scarpini e scorrazzare sull’erba. Dribbla, colpisce di testa, sgomita, butta giù avversari in maschi confronti, fa gol. Domina il campo. In un video postato su YouTube calcia anche un rigore perfetto: portiere sulla sinistra, palla insaccata sulla destra, come in una metafora politica. Certo, c’è un po’ di quel culto della personalità fin ingenuo che spinge i leader a mostrarsi atletici e muscolari. Ma il senso di Orban per il «foci», (il football come lo chiamano gli ungheresi), così come l’arte del dribbling o dell’entrata a gamba tesa, fan parte della sua partita politica, che non punta mai al pareggio e che in casa vuol vincere senza ingerenze. Come in tema di profughi. Mentre la Merkel accoglie fiumi di siriani, Orban silura addirittura il suo ministro della difesa, Csaba Hende, reo di lentezza nell’innalzare il muro anti-migranti. Anzi, ieri ha visitato a sorpresa la zona sul confine serbo chiedendo agli operai di essere più solerti per completare il vallo entro il 15 settembre.
La svolta autoritaria
Ma i rifugiati sono solo l’ultima delle frizioni tra l’Ue e l’enfant prodige della politica danubiana che scese in politica con stile e toni assai diversi. Nell’89, crollato il Muro, Orban rinunciò a una borsa di studio in Inghilterra per tornare in patria a invocare la democrazia, la cacciata dei russi, la permeabilità della cortina di ferro. Fu tra i fondatori del Fidesz (il partito di centrodestra), entrò in Parlamento con le prime elezioni del ’90 e dopo un po’ d’opposizione andò al governo nel 1998, lanciando un programma di forti liberalizzazioni per cancellare i residui dello statalismo socialista. E fu lui a spingere l’Ungheria verso l’Europa e nella Nato, partecipando con un pugno di soldati alla guerra in Iraq. Poi, dopo essere stato sconfitto dai socialisti nel 2002 e aver trionfato alle urne nel 2010 con una «maggioranza bulgara» se non fossimo in Ungheria (263 seggi su 386), la svolta radicale. Autoritaria, dicono gli avversari e l’Europa. Per salvare la patria, ribatte lui.
Nel 2011 ha stravolto la giovane costituzione democratica accentuando gli elementi nazionalisti, sottolineando la centralità della famiglia, della tradizione magiara, della religione cattolica, riportando in primo piano la questione spinosa ma molto sentita delle minoranze ungheresi rimaste fuori dai confini per colpa di vecchi trattati di pace ingiusti. E soprattutto ha aumentato i poteri di controllo del governo sulla stampa e sulla magistratura suscitando accese reprimende da parte dell’Europa, garante degli standard della democrazia illuminista, basata su una rigida divisione dei poteri.
Anche in economia, Orban ha scelto una ricetta tutta sua per curare un paese prostrato dalla crisi e sempre più deluso da quel capitalismo che non era affatto la cornucopia sognata ai tempi del comunismo. Ha rifiutato l’euro tenendosi ben stretto il fiorino, alzato le tasse alle multinazionali straniere, nazionalizzato le banche, cancellato l’autonomia della banca centrale, varato leggi per impedire lo shopping selvaggio di terre, case, aziende da parte della finanza internazionale.
E quando l’Europa e il Fmi han suggerito riforme economiche per tagliare il debito e concedere prestiti come in Grecia, le ha rispedite al mittente, infischiandosene delle procedure per infrazione, dei declassamenti nel rating. Fiero della sua «Orbanomic», una miscela singolare di dirigismo e mercato, che secondo i sostenitori ha ridotto deficit e disoccupazione, e secondo gli avversari ha favorito l’arricchimento di oligarchi, compagni di partito, fiancheggiatori.
Le proteste interne non mancano, il pressing dei partner europei è forte, ma gli ungheresi sono dalla sua parte visto che nel 2014 Orbán ha vinto per la terza volta le elezioni con il 44,5% dei voti. Le sue ricette nazional-popolari, riescono a esorcizzare le paure ancestrali di un popolo piccolo che da sempre si sente minacciato, circondato, invaso. I suoi slogan forti sono in sintonia con quell’anima antimoderna, agraria, nazionalista viva e maggioritaria sotto tutti i regimi. Ed è tale l’insofferenza verso le ingerenze della lontana Bruxelles che la Russia, eterna odiata nemica, dalla guerra d’indipendenza del 1848 ai carri armati del 1956, sta diventando paradossalmente alleata.
Russia da nemica ad amica
Orbán fa accordi con la Cina e con l’amico Putin, sposandone risorse naturali, tecnologie (Mosca ammoderna la centrale nucleare di Paks), potenza finanziaria e geopolitica. E anche, perché no?, l’idea di Stato. Molto politicamente scorretto, Orban, ha dichiarato che è venuto il momento di liberarsi dai dogmi della democrazia liberale. Forse per tornare a un’idea di magiarità antica, millenaria, diversa dal resto d’Europa. Ma forse anche molto vicina ad altri populismi europei che germinano nell’Occidente in eterno tramonto.