mercoledì 9 settembre 2015

Il Sole 9.9.15
Se i Paesi dell’ex cortina dimenticano gli aiuti Ue
di Attilio Geroni


Capita spesso che un Paese si dimentichi di essere stato un Paese di immigrazione, di fughe, esodi, alla ricerca di un posto migliore: lontano dalle guerre e/o dalla povertà. Capita all’Italia, sta capitando all’Europa dell’Est, che in questa nuova emergenza europea - la più imponente emergenza migratoria dai tempi della seconda guerra mondiale - non sta mostrando alcuna solidarietà nei confronti dei rifugiati in arrivo dall’Africa e dal Medio Oriente.
Eppure quando parliamo di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, solo per restare ai quattro di Visegrad, parliamo di economie e società che si sono emancipate rapidamente dal passato e dalla miseria socialista anche grazie alla solidarietà ricevuta dall’Unione europea. Solo Budapest nel periodo 2014-2020 beneficerà di aiuti in fondi strutturali per 35 miliardi di euro. Varsavia ne avrà oltre 100 miliardi. Non sono regali è chiaro, poiché in cambio ci sono state riforme spesso dolorose, ma sono stati e sono aiuti importanti perché contribuiscono ad ancorare le prospettive di questi Paesi a un futuro migliore, di maggior integrazione con l’Europa più ricca.
Ora, di fronte alle ondate di profughi che risalgono i Balcani, attraversano il budello di strade e ferrovie della Mitteleuropa per approdare in Germania, ci si trova di fronte all’ostilità e quando va bene all'indifferenza dei governi dell’Est. La posizione più intransigente, ma anche la più scontata, è quella dell’Ungheria. Scontata perché è coerente con la parabola del suo primo ministro Viktor Orban, che da scapigliato e liberale leader dell’opposizione anti-comunista a fine anni 80 si è trasformato in un padre della patria austero e ultraconservatore. In Ungheria, poi, il nazionalismo è una pesante eredità della storia e le forze ben più a destra della Fidesz di Orban, a cominciare da Jobbik che alle ultime elezioni ha ottenuto un consenso del 20%, prosperano. Pur nella sua inutilità pratica, la nuova cortina di ferro costruita lungo il confine meridionale con la Serbia, è figlia di politiche e tendenze condivise da una parte preoccupantemente alta dell’opinione pubblica ungherese.
La posizione polacca è più sfumata e articolata, ma la classe dirigente di Varsavia è preoccupata dall’esito delle elezioni politiche di fine ottobre, dove potrebbe prevalere il partito ultraconservatore e nazionalista Legge e Giustizia (PiS) a danno dei liberali di Piattaforma Civica (Po) e non se la sente di prendere una posizione più coraggiosa e solidale nei confronti dei profughi. La stessa Polonia, in questa fase drammatica, ha dimenticato di essere un Paese di grande immigrazione e di aver alimentato in buona parte gli afflussi provenienti dall’Est (gli otto Paesi ammessi nell’Unione nel 2004) verso la Gran Bretagna: su due milioni di lavoratori stranieri della Ue attualmente presenti nel Regno Unito, la metà proviene da questi Paesi e una schiacciante maggioranza dalla Polonia.
Più in generale, nell’Europa Centro-orientale si riscontrano una freddezza e una chiusura storiche nei confronti degli immigrati. Durante gli oltre quarant’anni di appartenenza all’orbita sovietica, la libertà di movimento in uscita e in entrata era ridotta al minimo e quel minimo era fortemente regolamentato. Non c’è quindi un’attitudine “culturale” e sociale di lunga data nei confronti della presenza di migranti, e a ciò si aggiunge un livello di reddito ancora molto basso rispetto agli standard dei Paesi storici dell’Unione europea: la media dello stipendio netto in Polonia e Ungheria è inferiore di 4 e quattro volte e mezzo alla media dell’Unione a 15.
La solidarietà viene rimpallata ai più ricchi, tra vecchi e nuovi nazionalismi e una linea di divisione continentale che non si vedeva dai tempi della guerra in Iraq. Da quando, nel 2003, con rozza ma efficace approssimazione, l’allora segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld parlò di Vecchia e Nuova Europa, definendo la prima come l’Europa contraria all’intervento in Iraq (soprattutto Francia e Germania) e la seconda, formata dai Paesi dell’Est, favorevole a quella guerra come segno di eterna gratitudine nei confronti degli Stati Uniti. Oggi quei ruoli, vecchio e nuovo, si sono invertiti.