La Stampa 9.9.15
Fra i disperati dell’isola di Lesbo stesi per strada e dimenticati
Oltre 20 mila accampati senza nulla in attesa dell’identificazione
di Maurizio Molinari
L’odore nell’aria è quello di un pannolino usato da dieci giorni. All’inizio, fai fatica ad orientarti, come in quei sogni quasi coscienti del mattino presto. Dove mi trovo esattamente?
Ovunque volgi lo sguardo, tende. Tende colorate sulla spiaggia. Tende sul lungomare. In cima alla collina. Tende al porto, davanti all’Alpha Bank, davanti a Benetton, davanti al Municipio. E fra le tende, piedi che spuntano, urla, pianti, donne velate che pregano, banane marce, ragazzi che sembrano svenuti o morti. Chi non ha la tenda da campeggio, dorme sull’asfalto, con la faccia sotto le auto parcheggiate, per cercare l’ombra. Tanto non si va da nessuna parte. È tutto bloccato, tutto accampamento. È mezzogiorno. Fine estate, 35 gradi, l’isola di Lesbo dolce e verdeggiante, quella della poetessa Saffo, la terza più grande della Grecia. L’isola - soprattutto - più vicina alla Turchia. Da una settimana, 22 mila profughi sono bloccati qui.
In gommone 40 minuti
Anche nei giorni di foschia, i confini dell’Europa si vedono ad occhio nudo. Terra turca, terra greca. In certi tratti di mare, bastano quaranta minuti di gommone, con un piccolo motore da 20 cavalli, per arrivare. Il gruppo che viaggiava con Yassen Abdullah, per esempio, è sbarcato alle otto di ieri mattina sulla spiaggia davanti all’aeroporto: «In acqua c’erano due turiste danesi - racconta - hanno scattato delle foto, ci hanno detto benvenuti».
Il problema è che nessuno li accoglie, nessuno li fa partire. Lunedì sera, ci sono stati scontri al porto con la polizia. È la seconda avvolta che succede. Un gruppo di 2500 profughi ha cercato di salire su un traghetto per Atene: manganellate per difendere la cancellata. Sempre lunedì sera, i cittadini di Mytilini hanno marciato pacificamente per le strade di questa piccola città, che conta 35 mila residenti. «Il problema non sono loro» dice il vigilie del fuoco Petros Chatzalexiu, uno dei partecipanti alla marcia. «Il problema è l’assenza totale della politica. Non hanno messo neppure i bagni chimici. I rifugiati non hanno acqua per lavarsi. Non hanno dottori, niente». L’unica traccia della politica è il manifesto elettorale di Alexis Tsipras lungo la via principale. Tiene in mano un garofano rosso, lo slogan è: «Votiamo per la nostra vita». Spiro Galinos, sindaco di Mytilini, ha dichiarato lo stato d’emergenza.
Sarebbe Europa, questa. Ma non c’è nessuno a dimostrarlo. Fino a due giorni fa facevano l’identificazione di 22 mila persone con due macchine fotocopiatrici. È arrivata una squadra dell’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati dell’Onu. A dirigerla, c’è l’italiana Alessandra Morelli. Ha lavorato a lungo in Somalia e in Darfur, per dire che non è una persona facilmente impressionabile. Ma è stata lei a chiedere l’immediata evacuazione dell’isola. «Abbiamo vissuto giorni di grandissima tensione - dice -, tutte le condizioni igienico sanitarie sono completamente saltate. I poliziotti greci non riuscivano a smaltire il lavoro, la rabbia cresceva. Abbiamo cercato di organizzare meglio, mettendoci in mezzo per attutire la rabbia e le emozioni di tutti».
Il 90 per cento siriani
Ora c’è una specie di centro di identificazione. È nel campo da calcio di una squadra di dilettanti, in cima alla collina. La coda è sterminata. Usano i fogli della pratica come copricapo. Ieri mattina sono svenute quattro persone. Sono arrivati alcuni agenti di rinforzo. «Abbiamo lavorato duramente», assicura il generale Zacharola Tsirigoti, la poliziotta che dirige tutte le operazioni. «Abbiamo svuotato lo stadio nel giro di 24 ore». Lo sforzo ha prodotto 6 mila documenti, cioè seimila persone che affollavano le agenzie di viaggio dell’isola.
Altre urla, spintoni, altri svenimenti davanti alla «Mytonis Travel Ok». Così come nelle altre agenzie, ai chioschi che vendono acqua, negli alberghi tutti pieni. Il biglietto per Atene costa 55 euro. «Il caos è totale», diceva la commessa. «Ma la colpa non è loro». Il bilancio, alla fine, dovrebbe essere questo: 6 mila in partenza, 3 mila appena arrivati. Totale: 19 mila profughi ancora accampati a Lesbo.
Il 90 per cento sono siriani. Sono in viaggio da pochi giorni. Yamez Zalt, guidatore di bus, ha lasciato Aleppo con la famiglia il 16 agosto. La sua tenda canadese è al porto, la figlia e la moglie dormono stravolte. Lui ti mostra la «licenza universale di guida» numero 30520 come garanzia per il futuro.
La guerra non è mai stata così vicina. Mytilini sembra un campo di sfollati prima dell’arrivo dei soccorsi. Girando lì in mezzo, fra i rifiuti e i bambini sporchi, ti viene da pensare che l’Italia non sia poi così male, come spesso la raccontiamo. Nemmeno nei giorni più feroci di Lampedusa si è era mai arrivati a un simile abbrutimento.