martedì 8 settembre 2015

La Stampa 8.9.15
Gitai racconta senza sconti l’assassinio di Rabin e dei sogni di pace in Israele
E chiede un minuto di silenzio per le ultime vittime
di Fulvia Caprara


Un minuto di silenzio per la morte della giovane palestinese Reham Dewabsheh, di suo marito e del figlio di 18 mesi nell’attentato attribuito a due estremisti ebrei, rompe la routine festivaliera. In Rabin, The Last Day, in concorso, con il Presidente emerito Giorgio Napolitano spettatore d’eccezione, Amos Gitai ricostruisce l’assassinio del Primo ministro Yitzhak Rabin avvenuto a Tel Aviv il 4 novembre 1995 al termine del comizio organizzato per sostenere gli accordi di pace con Arafat.
Analisi senza punti oscuri
Filmati originali e ricostruzioni recitate delle deposizioni dei vari testimoni, degli incontri tra i vertici della comunità ebraica, degli interrogatori dell’autore venticinquenne dell’omicidio, compongono un affresco lucido e appassionante delle dinamiche che permisero la tragedia. Un’analisi senza punti oscuri, con passaggi che oggi fanno ancora più impressione: «Sono trascorsi 20 anni - osserva l’autore -, le prospettive di pace sono svanite insieme ai sogni di normalità. Ma gli uomini che resero possibile l’omicidio del Primo ministro sono ancora a piede libero. Alcuni di loro flirtano con il potere. Sono allarmato dalla crescente diffusione di una violenza di matrice religiosa nel cuore della società laica israeliana».
Dalle prime inquadrature, con le immagini scioccanti dell’attentato, del corpo ferito, degli uomini della sicurezza sconvolti e disorientati, Gitai passa subito alla radiografia del clima e dei pensieri che preparano il terreno della tragedia. Viene in mente Jfk di Oliver Stone, ma qui testimonianze e materiali di repertorio rendono ancor più potente l’atto d’accusa: «Non voglio santificare Rabin, ma raccontare come sia stato tra i pochi a cogliere un concetto semplice ma arduo: per fare la pace l’intento non può essere unilaterale, ci vuole reciproca considerazione».
Sullo schermo scorrono le sequenze delle manifestazioni in supporto di Rabin e Shimon Peres, delle mobilitazioni in cui si vedono cartelli con Rabin vestito da nazista, del radicalismo dei rabbini ultraortodossi che esprimono la solenne maledizione di Pulsa Danura, dei coloni che difendono gli insediamenti. Il filo conduttore è l’indagine che porta alla luce le colpevoli negligenze di chi doveva proteggere Rabin, mentre la trama si ricompone nelle considerazioni del presidente della commissione d’inchiesta che, profetico, dichiara «in Israele niente sarà più come prima» e nella desolazione della vedova Leah: «Non riesco a provare collera, sono solo addolorata».
Più di tutto, in un film che rinuncia alle abituali semplificazioni del grande schermo, pesa la sequenza in cui la psicologa convocata dai rabbini definisce «schizofrenica» la personalità del leader scomparso e dichiara fra le lacrime, che il Paese non può essere abbandonato alla mercé di un uomo dalla mente disturbata. «L’arte non può cambiare la realtà - ha detto Gitai - ma deve farsi avanti. Il cinema è il mio modo di contribuire». Con l’assassino di Rabin, Yigal Amir, un colono ebreo estremista e sionista di destra, la società israeliana, aggiunge il regista, è stata «misericordiosa, rilasciandolo dopo pochi anni... Penso che sia avvenuto perché era solo il braccio di qualcosa di più grande».
Nato ad Haifa nel 1950, soldato nella guerra del Kippur del ’73, Gitai ha incontrato più volte Rabin: «Lo apprezzavo perché era una persona semplice, poteva essere brusco, ma quello che diceva veniva dal cuore». Del suo Paese lo preoccupa soprattutto «l’apparente mancanza di interesse verso i diritti, da quelli umani a quelli delle donne. Israele si sta righettizzando e questo mi preoccupa molto».