venerdì 4 settembre 2015

La Stampa 4.9.15
Il grande inganno dell’Ungheria
Il treno per la Germania va al campo
Dopo pochi chilometri la polizia blocca il convoglio: dobbiamo identificare i profughi
di Niccolà Zancan


E poi, dopo tre giorni e tre notti sbattuti sul pavimento della stazione Keleti, gli hanno fatto segno di andare: «Salite sul treno!». «La stazione è aperta». «Via di qui!». I poliziotti ungheresi sono autorizzati a parlare solo per impartire ordini. Gridavano e indicavano la strada con i manganelli. E i profughi più ingenui, i più stanchi, quelli nelle prime file, si sono messi a correre. Ringraziavano e spingevano, gridando a loro volta: «Germany! Germany!». Erano felici, si passavano dai finestrini sacchetti e bambini, per cercare di conquistarsi un posto. Tutti volevano salire sul treno verde e giallo con la scritta «Raaberbahn», sette vagoni di una compagnia austriaca stipati all’inverosimile.
È partito da Budapest alle 11.30, ma non andava in Germania. Si è fermato molto prima: stazione di Bicske. Vicino a Felcsút, il paese natale del primo ministro Victor Orbán. Si è fermato davanti a un centro di accoglienza e identificazione. Ecco perché adesso, quelli del treno verde e giallo si rifiutano di scendere. Non mangiano. Non prendono neppure le bottiglie d’acqua lasciate sulla pensilina. Resistono al binario 3, asserragliati dentro un treno che non va più da nessuna parte.
No alle impronte
Non vogliono farsi identificare qui. Non vogliono restare in Ungheria. Una bambina si affaccia livida dall’ultimo vagone, prima classe: «Per favore, aiutatetici». Il padre urla ancora una volta: «No camp! No camp!». Sono centinaia. Qualcuno dice: seicento. Quattro volontari della Croce Rossa vorrebbero avvicinarsi, ma non gli è consentito. «Le forze dell’ordine non ci danno l’autorizzazione», dice la signora Ama. I poliziotti in tenuta antisommossa, tutt’intorno, aspettano di capire quale piega prenderà questa storia. «Se i profughi non cedono, interverranno», dice un giornalista locale. «Ma lo faranno a tarda notte. Adesso hanno gli occhi del mondo puntati addosso».
Il corrispondente di NBC News America, un italiano, Claudio Lavanga, continua a collegarsi in diretta: «Sono ormai sette ore che i migranti non mangiano e non bevono». Sulla sinistra, c’è la telecamera di Al Jazeera. Senti voci francesi, spagnole, tedesche. Senti le urla dei migranti. Il rumore degli anfibi fra i sassi della ferrovia, lo scarico intasato dell’unico bagno. È l’ennesimo giorno di cui vergognarsi, a questa nuova frontiera d’Europa.
Il centro d’accoglienza
Bicske è un paese di pendolari a quaranta chilometri da Budapest, in direzione ovest. Il centro di identificazione e accoglienza è lontano delle case. Lo trovi seguendo un gruppo di ragazzini afghani, venuti a raccogliere un po’ di frutta dagli alberi. C’è la rotonda con il supermercato Tesco, case di contadini. E poi, filo spinato, casette basse numerate, una cancellata: la bandiera dell’Unione Europea. Più fatiscente, ma abbastanza simile al Cara di Mineo, il più grande centro di accoglienza italiano. Visto da fuori, perlomeno. Perché l’ingresso è vietato ai giornalisti. I posti ufficialmente sono 1000, ma adesso ci sono più di 3000 profughi. Camerate da 35 letti. Hanno montato diverse tende da campo nello spiazzo al fondo. All’ingresso le guardie ti rispondo sprezzanti: «Non parliamo inglese. Questa è l’Ungheria». C’è la fotografia di un ragazzo siriano «scomparso». Tornelli da stadio per verificare ogni ingresso, ogni singola uscita. La famiglia irachena Amhed torna indietro carica di sacchetti della spesa, biscotti per i bambini, uva e banane. «È brutto stare qui, non facciamo nulla, vogliamo andare in Germania, il cibo non basta», dice la signora Engham Ahmed. Ed è tutto ancora confuso, sporco, incerto, non detto, non spiegato. «Quanto dobbiamo stare al campo?».
Quelli nel campo non sanno di quelli del treno. Quelli del treno urlano ad altri profughi, che intanto arrivano su altri convogli regionali. Sono piccoli gruppi. Scendono e non capiscono. Anche loro erano convinti di essere diretti in Germania. Non è facile orientarsi dopo giorni di viaggio estenuante. Ma poi, la parola «camp» ha il potere di rendere tutto chiaro. Scene così: tre donne velate che piangono isteriche e si buttano fra l’erba e il parcheggio, un gruppo di uomini presi a manganellate sulla testa, bambini che gridano terrorizzati, tirati via per le braccia. E una bambina con lunghi ricci neri e un vestito a fiori, che fa ripetutamente segno al poliziotto - proprio quello che ha colpito suo padre - con il dito indice sul collo: ti taglio la gola.
L’attesa infinita
Passa un treno merci mentre un uomo siriano, con gli occhiali da vista e una polo bianca, grida in faccia a sette militari con caschi e visiere abbassate: «Voglio andare allo Sheraton! Voglio andare ovunque! Non nel vostro campo. Ho i soldi, guardate. Non ho fatto niente di male. Lasciatemi andare!». Un altro uomo, magrissimo, è stato accerchiato sotto un lampione, mentre tentava la fuga solitaria dalla stazione. Sotto quella luce gialla e tetra, vedi che mentre ansima e spiega, i suoi occhi incominciano a lacrimare: «Voglio soltanto andarmene dall’Ungheria, soltanto andarmene, soltanto andarmene da qui…». Sono scene finali, senza possibile redenzione.
La sala d’aspetto è deserta. Quelli del treno sono ancora chiusi dentro, alle undici di sera. Li vedi stesi lungo i corridoi, rannicchiati negli scompartimenti, abbracciati a bambini scalzi. Solo due vagoni sono ancora illuminati. Qualcuno ha messo un asciugamano a righe come tenda. I poliziotti fanno l’ennesimo cambio turno, mentre un aereo solca il cielo con luci intermittenti. Il mondo dei giusti e il mondo degli sbagliati sono schierati al binario 3.