venerdì 4 settembre 2015

Corriere 4.9.15
Io, un ungherese in fuga, fui salvato dai contadini
Da quando dopo Yalta il mondo è stato suddiviso in due come un giocattolo, il numero dei fuggiaschi, degli esiliati, dei profughi è enormemente cresciuto
E il mondo si è sempre più differenziato per la maniera di trattarli
di Giorgio Pressburger


Da questo nascono nuove divisioni, nuove liti, nuovi conflitti. Il mondo di nuovo si sfalda. Sentire il racconto di una fuga, di una separazione, di una solitudine forse può essere utile.
Sono nato in Ungheria e ho vissuto lì l’intera mia adolescenza. A 19 anni ho intrapreso un viaggio clandestino verso l’Italia a bordo di un camion su cui eravamo circa trenta passeggeri, tra cui tre o quattro ragazzi meno che ventenni. Ero uno di questi. Repressa la rivolta ungherese della fine del 1956, l’esercito sovietico aveva invaso il mio Paese natale con carri armati e altri mezzi corazzati. Molti studenti, approfittando della momentanea apertura dei confini fuggirono verso l’Occidente, parte interdetta del globo per gli abitanti dei cosiddetti Paesi comunisti. Chi non ha vissuto quegli anni non sa quanto severa fosse la separazione tra i due «blocchi» e che cosa significasse la sensazione di vivere solo a metà. Tutto del blocco opposto era infetto, ignobile, contagioso, malvagio, da non conoscere minimamente. L’inferno.
Quando l’Armata Rossa occupò l’Ungheria, eravamo convinti che gli studenti sarebbero stati presi di mira per primi e che trattamento avrebbero subito era un’incognita minacciosa e terrificante. Perciò, mio padre individuò un trasportatore con camion che faceva la spola tra Budapest e i paesini del confine con l’Austria. Sì, l’Austria, come accade anche oggi. Era già inverno benché fossimo all’inizio di novembre. C’era neve e gelo. Il camion individuato da mio padre partiva alle sette del mattino. Ci aspettava sotto casa. Io non avevo la più pallida idea di che cosa sarebbe successo di me: volevo solo scampare all’arresto, alle false accuse, a tutta l’ignominia che immaginavo si sarebbe scatenata. E volevo conoscere l’Occidente, quella parte del mondo la cui letteratura, musica e arte cominciavo a conoscere e amare quanto quella dei nostri Paesi. Nel momento in cui salii a bordo del camion all’angolo di una viuzza, mia madre si aggrappò a quella vecchia vettura, quasi volesse farsi trascinare. Era disperata, come ero anch’io, ma io avevo l’incoscienza e la fiducia della mia età. Ero pronto a fronteggiare quel vuoto che vedevo davanti a me. A ogni via che imboccavamo dicevo un addio, dentro di me, e con sorda amarezza. Ero però sicuro di poter tornare presto. Passarono quindici anni, fino a quella data.
Al confine fummo fatti scendere, una «guida» ci fece entrare in una casa di contadini, ci diedero del tè, qualche biscotto, venne il tramonto e noi affrontammo la foresta di confine con l’Austria condotti avanti dall’ignota guida. Che nel mezzo della foresta, a un certo punto, si fermò, spense la sua lampada e ci disse che se non gli avessimo consegnato tutto ciò che possedevamo ci avrebbe lasciati lì. Sarebbero venuti i carri armati russi e ci avrebbero presi tutti. Tutti vuotarono le borse, le tasche, cominciarono a imprecare e aspettarono cosa sarebbe successo. Qualcuno pregava in ginocchio dietro a un albero spoglio. Dopo venti minuti la guida ci disse di rimetterci in cammino. Fatti cinquanta passi, enormi riflettori si accesero di colpo, militari cominciarono a gridare di fermarci e non muoverci: erano le guardie di confine. Ci allinearono lungo il fianco di un edificio, ci ingiunsero anche loro di consegnare tutti i nostri rimanenti averi se no ci avrebbero consegnato ai russi. Tutti ubbidirono senza fiatare. Solo qualche bambino piccolo piangeva a squarciagola. Finita la spoliazione mandarono a casa la guida, ci fecero alzare, diedero qualche spiegazione di come proseguire il cammino, ci dissero: «Siete cittadini americani. Buona fortuna!». E spensero tutte le luci, anche le più piccole.
Camminammo tutta la notte senza sapere dove stessimo andando. Una muta marcia nell’inferno. Improvvisamente due occhi luminosi si piantarono addosso a noi: un autobus austriaco mandato per raccoglierci. Ci gridarono in tedesco di aspettarli senza paura, si fermarono, ci abbracciarono e ci fecero salire. Cinque minuti dopo eravamo in Austria, in un paesino del Burgenland. Fummo ospitati da famiglie contadine del luogo. Io dormii insieme a un nonno ultraottantenne. Il giorno dopo ci portarono alla polizia dove venimmo identificati e indirizzati, ciascuno dove era diretto. A me diedero un passaggio in autostop per Vienna, all’ambasciata italiana. Lì speravo di ritrovare mio fratello gemello. Noi, mio fratello gemello e io, avevamo studiato italiano al liceo e così riuscimmo a comunicare con la gente dell’ambasciata. Ci promisero di portarci in Italia, e due giorni dopo partì un pullman con una cinquantina di profughi ungheresi che varcarono così le Alpi. Cominciò la fase più emozionante della mia vita: la conoscenza dell’Italia e degli italiani, di tutto ciò che potevo ricevere da questo Paese e dai suoi abitanti. Quarant’anni più tardi riuscii a fare ciò di cui non potevo desiderare nulla di meglio. Fare da collegamento tra ungheresi e italiani, come direttore dell’Istituto italiano di cultura di Budapest. In mezzo ci furono lutti, malattie, morti, e grandi soddisfazioni: oggi restano vivi soo dei parenti lontanissimi, da me quasi mai frequentati.
Lutti e lontananza, è un grande dolore che tocca a tutti i fuggiaschi. La solitudine, la povertà sono altri capitoli. Ma la solidarietà di cui i miei conoscenti italiani mi hanno onorato resta al di sopra di tutto. Lo dico perché si sappia, si conosca come esempio. Spero che questo racconto serva a muovere nuove solidarietà, nuove unioni, sia utile a chi ospita e a chi è ospitato.