domenica 27 settembre 2015

La Stampa 27.9.15
I nazionalismi e le responsabilità dell’Unione europea
di Emanuele Felice


In un’Europa senza prospettive riemergono i nazionalismi. E non solo a Est, ma pure a Ovest. L’indipendentismo catalano rischia di portare fuori dall’Unione una delle sue regioni più dinamiche e una città tanto vitale per la nostra cultura quale Barcellona; per contrappasso, può pure trascinare il resto della Spagna lungo il crinale di una deriva identitaria speculare e contraria, potenzialmente altrettanto nociva per l’Europa. Dopo l’Ungheria, la Spagna.
Si fa fatica a trovare per queste dinamiche centrifughe una spiegazione economica. Colpisce anzi il fatto che esse siano sostanzialmente svincolate dalla logica dei costi e benefici. Certo, nell’indipendentismo catalano vi è da sempre una richiesta di riequilibrio fiscale il cui appeal si è andato ingrossando in questi anni di crisi economica e tagli ai bilanci. Ma se questo è vero, allora bisogna pur riconoscere che la soluzione più logica e conveniente per i catalani – un nuovo patto fiscale con Madrid simile a quello di cui godono i baschi – non sembra oggi fuori portata: a dicembre si voterà per le politiche nazionali e, stando ai sondaggi, nel giro di qualche mese potrebbe insediarsi a Madrid un diverso governo assai più disponibile al compromesso. Sennonché la scelta indipendentista rema in direzione contraria e, molto probabilmente, si rivelerà dannosa per l’economia della regione. Perché nell’immediato favorirà nel resto di Spagna i partiti nazionalisti più ostili al compromesso. E perché nel medio termine, ammettendo pure che l’avventura catalanista vada in porto, condurrebbe a un nuovo Stato quasi sicuramente escluso dall’Unione (e impossibilitato a entrarvi causa il veto di Madrid): per il clima conflittuale e l’incertezza generale, l’industria catalana perderebbe consistenti fette del mercato spagnolo, presumibilmente si ridurrebbero i flussi di turisti e gli investimenti stranieri, e la Catalogna indipendente dovrebbe pure preoccuparsi di finanziarsi un esercito.
Nemmeno il nazionalismo ungherese ha lungimiranza economica. Il Paese che erge nuovi muri come ferite nel continente, e al cui interno tale è la retorica identitaria che una reporter si mette a fare lo sgambetto ai profughi sentendosi poi in diritto di dire che voleva garantire un futuro ai suoi figli, ebbene quel Paese è da anni in declino demografico: gli abitanti li perde e quindi avrebbe molto da guadagnare dall’arrivo degli immigrati, specie se si decidesse a mettere in piedi una seria politica per l’integrazione; tanto più che il Pil ungherese è in crescita, ben al di sopra della media del resto dell’eurozona, e quindi anche il sistema economico ha vitale bisogno di manodopera.
Difatti, a ben vedere, non soltanto queste dinamiche non hanno una motivazione economica. Gli è che – questo davvero deve preoccupare – esse si producono proprio in quelle aree che hanno sperimentato la crescita più intensa. In quelle che hanno maggiormente beneficiato dell’integrazione europea. Da quando è entrata nella Comunità Europea, la Spagna (Catalogna in testa) vive l’epoca più prospera della sua storia. Lo stesso vale per l’Ungheria di Orban: gli ungheresi non sono mai stati meglio, anche al netto delle gravi limitazioni alle libertà politiche imposte da Orban nel 2013. E non sono i due soli casi. Se ne parla poco perché fuori dai riflettori, ma il massimo beneficiario dell’integrazione europea negli ultimi due decenni è la Polonia, il più popoloso Stato dell’Europa dell’Est. Ebbene quel Paese si è reso protagonista nei mesi scorsi di una sconcertante virata verso il nazionalismo estremo: in una realtà da sempre stretta fra tedeschi e russi, a maggio i cittadini polacchi hanno eletto presidente Andrzej Duda, un ultranazionalista che si contraddistingue per essere, a un tempo, antitedesco e antirusso (peraltro impostosi su un uscente di centro-destra, moderatamente conservatore, ma filoeuropeo). Tanto per complicare ancora di più le cose con Putin e nei già fragili equilibri dell’Unione. Anche alla vigilia della seconda guerra mondiale l’allora regime polacco era, a un tempo, antitedesco e antirusso: se nel 1938 avesse tenuto un atteggiamento più razionale verso i russi, permettendo all’armata rossa di transitare in Polonia per aiutare i cecoslovacchi minacciati da Hitler, probabilmente si sarebbe saldata un’alleanza anti-tedesca fra l’Unione Sovietica e la Francia e noi tutti ci saremmo risparmiati la seconda guerra mondiale; con grande beneficio anche dei polacchi. Questo per dire di dove il nazionalismo può portare e che si dovrebbe sempre cercare di guardare più lontano.
Ora, a uno sguardo lungo bisogna riconoscere che se i nazionalismi riemergono contro ogni logica economica, è innanzitutto per responsabilità dell’Unione: questa negli ultimi decenni è stata incapace di promuovere fra i suoi cittadini una coscienza comune. E non è un caso che l’idea di Europa resista meglio nei Paesi del nucleo storico, lì dove le fondamenta di una coscienza europea erano state poste dalle generazioni precedenti − a cominciare da quel manifesto scritto a Ventotene da un manipolo di confinati antifascisti. Certo, la coscienza europea sarà una costruzione artificiale e indotta; ma non più, in fondo, dei vari nazionalismi autoctoni, anch’essi identità frutto di precisi processi storici. Quel che bisogna avere chiaro è che queste costruzioni della nostra mente (le si chiami ideologie o semplicemente cultura) motivano e mobilitano gli esseri umani − da sempre, si pensi alle piramidi − tanto quanto i ben più reali bisogni materiali. Alcune finiscono per farci stare peggio, altre però aiutano a vivere in maniera più umana e civile. Se vogliamo mantenere il nostro livello di benessere, consapevolmente iniziamo a porci il problema di come fare per iniziare a pensare davvero come europei: di come assumere un’identità europea che sappia farsi prioritaria su quella nazionale. Ché il mercato unico e l’euro non sono bastati, nemmeno dove hanno funzionato meglio.