La Stampa 27.9.15
L’ultimo atto della fuga da Fi
Ora a lasciare sono i peones
Da inizio legislatura persi 40 senatori e più di 30 deputati
di Mattia Feltri
È il tempo di Carneade, o meglio del terzino dell’Atalanta, come si diceva un tempo e lo cantava benissimo Roberto Vecchioni: «Fossi stato un genio / o almeno un terzino dell’Atalanta...». Geni pochi o niente, ma di terzini dell’Atalanta ce n’è una folla, tutti di colpo al centro del villaggio: la destra italiana per un giorno o almeno un pomeriggio rimane emotivamente appesa alle mosse del senatore Domenico Auricchio, finché non è passato da Forza Italia ad Ali, cioè al partito di Denis Verdini. Chissà come va misurata la moralità di Auricchio visto il suo commento alle paturnie di Raffaele Fitto solo otto mesi fa: «Fossi in lui avrei già lasciato il partito, anzi la politica che dovrebbe essere prima di tutto coerenza e lealtà. Abbia rispetto per chi gli ha dato tutto». E cioè per Silvio Berlusconi: «Tradire Berlusconi sarebbe come tradire me stesso. Gli ho detto che non lo tradirò mai. Lui mi ha preso sotto braccio, mi ha chiamato “Mimì” e mi ha sorriso».
Così parlava Mimì Auricchio una settimana fa. Se volete il Carnevale siete nel posto giusto. La fantastica Eva Longo (ex Dc, ex Ccd, ex Fi, ex fittiana, ora verdiniana) nel gennaio del 2014 così escludeva l’ipotesi di un ritorno in Forza Italia, dove ancora la Longo risiedeva, di Nunzia De Girolamo, nel frattempo passata con Angelino Alfano: «Non possiamo accettare palesi e vili tradimenti». Non si andava leggeri, con gli altri, e non ci si va nemmeno adesso e infatti la suddetta De Girolamo venti minuti dopo essere rincasata da Berlusconi impegna del sarcasmo: «Adesso Alfano canta meno male che Renzi c’è». Sospetto da cui si poteva essere sfiorati da almeno un paio d’anni.
Ma è l’ora del terzino dell’Atalanta: la scissione è un brivido universale, sebbene passeggero. Un tempo se ne andavano Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, o almeno Clemente Mastella e Marco Follini, fino a Sandro Bondi e Denis Verdini, adesso tocca a Monica Faenzi e Giuseppe Galati, di cui il lettore probabilmente non conosce le biografie a memoria. E però è un andirivieni talmente massiccio che il centrodestra ormai si divide in alfaniani, verdiniani, fittiani, berlusconiani, salviniani, meloniani, e la geografia parlamentare pare quella dell’Jugoslavia dopo la dissoluzione. Da inizio legislatura, Forza Italia ha perso fra isterie istantanee oltre trenta deputati e quasi quaranta senatori, e allora, davanti alle cedevolezze del senatore Peppe Ruvolo («Ribadisco la mia lealtà alla linea del presidente Berlusconi e diffido chicchessia dall’utilizzare impropriamente il mio nome», settembre 2013; «la linea politica intrapresa da Forza Italia mira a rincorrere i populismi», settembre 2015) fioriscono interviste a Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, incaricati di ridefinire i confini dell’etica politica. Che effettivamente sono piuttosto elastici.
Giovanni Mottola, già vicedirettore del Giornale, a inizio anno indirizzava un consiglio e un po’ di disprezzo al solito Fitto («Se crede che il leader di Forza Italia sta sbagliando perché non va a fondarsi il suo partitino?»). Ora Mottola il consiglio l’ha fatto suo, e quantomeno rimane nella parte che vuole le riforme. Altrove si trovano motivazioni più friabili: il senatore Francesco Amoruso è passato con Verdini perché «Berlusconi non mi ha difeso» in una periferica polemica fra capoccia forzisti pugliesi. Del resto Forza Italia è il partito in cui si giustifica il passaggio dal sì al no alla fine del bicameralismo, cioè alla più importante riforma degli ultimi settant’anni, perché «Renzi ci ha fregato nell’elezione del capo dello Stato» (Maurizio Gasparri, ancora pochi giorni fa). E certi terzini presto o tardi finiscono in tribuna.