domenica 20 settembre 2015

La Stampa 20.9.15
Una riforma ma a patto che funzioni
di Marcello Sorgi


Non è ancora ufficiale, il compromesso che dovrebbe portare all’accordo tra maggioranza e minoranza Pd e alla rapida approvazione in terza lettura della riforma del Senato, ma già ne circolano diverse versioni. E non c’è bisogno di essere costituzionalisti, basta solo avere un po’ di pratica del nostro Parlamento, per capire che, magari servirà a chiudere la guerra intestina nel partito del presidente del Consiglio, ma non è detto che funzionerà. Già la prima versione della riforma, il testo che appunto dovrebbe essere emendato per garantire il ritorno all’elezione diretta dei senatori, conteneva delle incongruenze. Si prevedeva infatti che i consiglieri locali e i sindaci da inviare a Palazzo Madama fossero designati dai consigli regionali, scelti cioè, come si usa dire, con elezione di secondo grado, metodo che era in voga anche quando il Parlamento europeo non era elettivo, e i singoli parlamenti nazionali vi designavano i loro rappresentanti senza coinvolgere l’elettorato.
Con il sistema previsto originariamente nel testo della ministra Boschi, alla scadenza delle Camere, prevista nel 2018, i Consigli regionali avrebbero provveduto a indicare i consiglieri-senatori, che sarebbero rimasti in carica per il tempo in cui erano stati eletti nelle Regioni. Tanto per fare un esempio, visto che a maggio si è votato in Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia, dai Consigli regionali neo-eletti sarebbero arrivati una trentina abbondante di nuovi senatori, che nel 2018 avrebbero avuto davanti due anni di mandato, e sarebbero stati sostituiti (o confermati) alla scadenza, nel 2020, dopo nuove elezioni amministrative.
Siccome in Italia non si è mai riusciti, tranne occasionalmente, a organizzare degli election day per accorpare le numerose scadenze elettorali che si intrecciano, il nuovo Senato sarebbe stato sottoposto a una specie di mid-term permanente, una serie ininterrotta di rinnovi parziali determinati dalle conclusioni scaglionate delle singole legislature regionali.
Fin qui, nulla di inaccettabile, sarebbe bastato farci l’abitudine. Le cose invece sono destinate a complicarsi con il nuovo sistema, che prevede il coinvolgimento diretto degli elettori e l’elezione simultanea dei consiglieri semplici e di quelli destinati al Senato. Che si tratti di un listino in cui ogni partito presenterebbe un elenco di possibili senatori, o invece sia riservata alle Regioni la scelta del metodo di elezione, il problema non cambia. Cosa succederà infatti nel 2018, quando, se tutto andrà come Renzi spera, e la riforma sarà stata confermata nel 2016 dal referendum popolare previsto dalla Costituzione, verrà il momento di eleggere il nuovo Senato? I Consigli regionali in carica, normalmente composti da venti a novanta membri, saranno sciolti per consentire l’elezione di quei tre, quattro o cinque consiglieri senatori per ogni regione, che dovranno andare a comporre il Senato riformato? E con quale motivazione saranno fatti decadere, visto che sono stati regolarmente eletti in una libera manifestazione della volontà popolare? Senza dire che negli ultimi anni, causa il crescendo di corruzione che ha colpito un po’ tutte le Regioni, ci sono stati casi di scioglimento anticipato (ultimi in ordine di tempo, Piemonte e Lazio): in questi casi, come ci si comporterebbe? I consiglieri-senatori verrebbero automaticamente esautorati? Se colpiti da mandato di cattura, usufruirebbero dei vantaggi garantiti dall’immunità e dall’autorizzazione all’arresto? Sono solo alcuni quesiti, più o meno meritevoli di risposta, prima che il testo venga licenziato e torni alla Camera per l’approvazione pressoché definitiva.
Tra l’altro, mentre l’Italia si prepara ad abbandonare quell’unicum rappresentato dal suo bicameralismo perfetto, in altri Paesi dove vige quello imperfetto si comincia a riflettere sul ruolo delle cosiddette Camere di garanzia, come diventerà il nostro Senato dopo la riforma. In Inghilterra, ad esempio, dove la Camera dei Lord è composta da quasi mille membri, di cui duecento di diritto ereditario, senza che nessuno gridi alla Casta, la possibilità di richiamare (e chiedere di modificare) le leggi approvate dalla Camera dei rappresentanti è da tempo considerata eccessivo. Parlamentari di nomina regia o addirittura per censo hanno infatti il diritto di rallentare o bloccare le politiche economiche e di bilancio che a Westminster, grazie a quello che da noi verrebbe considerato uno strapotere del governo, il Cancelliere dello Scacchiere illustra in cinque minuti e fa approvare in mezza giornata, dato che è quasi impossibile emendarle. Di qui una forma di «navetta» anche tra i due rami del Parlamento inglese: diversa, certo, da quella italiana, campione di duplicazioni e inconcludenze, ma egualmente capace anche Oltremanica di rallentare l’iter dei provvedimenti. Tal che negli ultimi tempi si è accentuata la spinta a un ripensamento che potrebbe portare a una riforma esattamente opposta alla nostra, con la trasformazione in senso elettivo della Camera Alta, la riduzione del numero dei membri e una conseguente, quanto discutibile, dal punto di vista inglese, accentuata politicizzazione dei Lord.
Questo per dire che le riforme istituzionali sono importanti - e quella del Senato, ad essere chiari, è indispensabile - ma non risolvono tutti i problemi. Realizzandole, a volte, si scopre che non sempre sono le istituzioni ad essere ammalate; ma è la politica che ha bisogno di essere curata.