La Stampa 14.9.15
I due volti opposti dell’Europa
di Stefano Stefanini
A Bruxelles, oggi, i ministri degli Interni e della Giustizia dell’Ue si presentano divisi sui rifugiati. Sono però all’opera molle che potrebbero ricompattare la risposta europea. Ieri il ministro tedesco de Mazière ha annunciato fermi temporanei alle frontiere. Accoglienza sì, ma non senza controlli. La collaborazione con i vicini diventa indispensabile. D’altra parte nessun paese può sperare di isolarsi dall’esodo.
Non è più un problema del Sud, come gli sbarchi che per anni hanno gravato sproporzionatamente su Italia, Malta, Grecia. C’è una responsabilità internazionale cui neppure i più recalcitranti possono sottrarsi. Senz’accordo la crisi s’incancrenisce. E spacca l’Europa. La riunione di oggi dirà se e quanto i governi se ne rendano conto.
Sul tavolo dei ministri, il piano Juncker per i rifugiati. Nell’aria, la domanda: quanto è unita l’Unione? Cosa hanno in comune Germania che sta già costruendo alloggi a colori vivaci per i nuovi arrivati e Ungheria che erige muri e filo spinato per tenerli fuori? La lunga marcia di migliaia di siriani e afghani ha sbriciolato il fragile involucro dei valori comuni europei. Le risposte a caldo dei governi hanno rivelato radici lontane. La proiezione cosmopolita, marittima e, diciamolo pure, coloniale dell’Europa occidentale è quasi del tutto estranea all’Europa centrorientale, dominata da una geografia continentale e da forti omogeneità culturali. Due generazioni di regimi comunisti e di dominazione sovietica hanno fatto il resto.
Spesso i paesi dell’Europa centrorientale vogliono semplicemente rispetto per le loro esperienze. La richiesta «non fateci lezione sulla Russia» è storicamente più che comprensibile. Ma con la crisi dei rifugiati giungono ad un bivio. Non è solo una questione di solidarietà comunitaria: è una questione di appartenenza o meno al solco europeo e occidentale. Si può rimanere fuori dall’euro; si può essere selettivi su alcune dimensioni dell’integrazione; si può, come Londra, cercare di «rimpatriare» porzioni di sovranità. Non si può rifiutare di fare la propria piccola parte di fronte a un esodo disperato che sta scuotendo gli equilibri dell’Unione. Si tratta di dimostrare che si è parte dell’Unione quando affronta le sfide, non solo quando è conveniente per interessi nazionali o per sicurezza.
Le forti pressioni politiche, non solo di Bruxelles, Berlino e di altre capitali europee (fra cui Roma) e la prospettiva di ricadute internazionali negative possono sgretolare il blocco dei paesi che respingono l’obbligo di ripartizione. Se i ministri non cederanno, toccherà ai capi di governo. Il presidente europeo, il polacco Tusk, ha minacciato un vertice straordinario (non ne sono previsti fino al 15-16 ottobre). E’ probabilmente l’ultima cosa che i leader vogliono, dopo le maratone greche di giugno e luglio. Ma è chiara la determinazione dei responsabili Ue di arrivare ad una soluzione che preveda una ripartizione «equa» degli asili. Bruxelles si rende conto che sui rifugiati l’Ue si gioca credibilità, identità e futuro.
A lungo l’Unione Europea è cresciuta, si è rafforzata e si è allargata attraverso una progressione tanto graduale quanto inesorabile, nella quale negoziato e pazienza strategica sono stati gli strumenti principe. Crisi ed emergenza non sono nel Dna di Bruxelles. Eppure, in soli diciotto mesi, l’Ue si è trovata ad affrontarne tre: una guerra fra Russia e Ucraina ai propri confini, banche chiuse per tre settimane in un paese membro e la fiumana dei rifugiati. Non era quello che si attendevano né le istituzioni di Bruxelles, né i cittadini vecchi e nuovi dell’Unione. L’Unione sta imparando che gli appuntamenti con la storia non si scelgono.
Sarà la risposta a queste crisi, e alle altre che il XXI secolo ha in serbo, a definire l’Europa. Se gli europei vedranno un’Unione capace di affrontarle, le rinnoveranno la fiducia. Se si rivelerà impotente, la diserteranno. Questo il motivo per cui l’Ue non può permettersi di fallire sui rifugiati.