domenica 13 settembre 2015

La Stampa 13.9.15
D’Alema e Cuperlo come ai bei tempi
Duetto antirenziano a Firenze
L’ex premier: il partito non esiste più, non facciamo finta
di Ilario Lombardo


C’è un forte odore di fegatino, alla Cascina di Firenze. Impregna la Festa dell’Unità. Ma a ben sentire l’odore è più spigoloso, aspro. Sta arrivando Massimo D’Alema. L’attesa si consuma come si può. Gianni Cuperlo riunisce il pezzo fiorentino della sua corrente nel ristorante Campi. Sempre lì ma nella pizzeria accanto, la direttrice del Tg3 Bianca Berlinguer, che avrà l’arduo compito di condurre un faccia a faccia tra D’Alema e un dalemiano che negli anni si è costruito una sua storia e una sua autonomia, invece incassa saluti, selfie, incoraggiamenti e l’augurio di una signora: «Speriamo che fai te la sfidante di Renzi al congresso». Poi le si avvicina Mary, racconta la sua saga familiare tutta interna al Pci e le chiede: «Io non so’ mica renziana, ma in passato mi ricordo che si discuteva, si discuteva, ma poi una decisione la si prendeva a maggioranza, e la minoranza si adeguava. E ora? Lo chieda un po’ a D’Alema».
Sarà fatto, pochi minuti dopo, quando sul palco sale l’ex premier:
«Non facciamo finta di essere un partito, con la maggioranza e la minoranza. Tutto questo non c’è più». Boato dalla platea. E’ solo un assaggio. D’Alema rispolvera il miglior D’Alema. Tagliente, sarcastico. Si sente a casa, altro che nella tana del lupo, come gli ricorda un curioso liquidato con la fede giallorossa: «Gli unici lupi che conosco sono a Frosinone». Il pensiero, come è ovvio, va alla riforme, alle lacerazioni del Pd. «Sta a Renzi decidere se avere una discussione che sia vera. Sento parlare tanto di disciplina di partito. Tra tutti i valori della sinistra che abbiamo perso, l’unico che abbiamo conservato è il peggiore». D’Alema punta direttamente al cuore del renzismo e risfodera il paragone con il soviet: «Mi ricordano il compagno Pjatakov, passato alla storia per una memorabile frase: “Quando il partito dice che il bianco è nero, allora noi dobbiamo dire che il bianco è nero”. Ora al posto di Pjatakov abbiamo Lotti». Gli applausi sigillano una corrispondenza sentimentale con gli spettatori. Soltanto uno di loro in risposta gli urla «40 per cento», come a ricordare a D’Alema il successo elettorale di Renzi che lui non ha mai visto neanche con il binocolo.
D’Alema ricorda un partito guidato da un premier che è anche segretario, «che, abbandonato a se stesso, sta deperendo»; ricorda i milioni di voti persi alle ultime elezioni regionali, «e non perché il Pd si sta affrancando dai post-comunisti, ma perché sono i post-comunisti a essersi affrancati dal Pd». E’ una questione di popolo, di identità. Che è alla base della stessa straziante domanda che arriva alla fine, conseguente all’ipotesi di riforme votate senza un pezzo del Pd e con l’aiuto di Denis Verdini. La scissione è un tabù che Cuperlo scalfisce appena. Non la cita, ma la evoca: non è il Pd che voleva, dice, e «se venisse a mancare la ragione fondativa del partito, questo potrebbe non essere più la casa di molti di noi». Il Pd «non è un destino, ma una scelta».