venerdì 11 settembre 2015

La Stampa 11.9.15
Lucy e gli altri progenitori
Una sfida nell’Africa primordiale
Come la Natura realizzò una serie di clamorosi “esperimenti biologici”
Un’eredità che va dalla camminata bipede fino all’intelligenza
di Nicla Panciera


La scoperta di Lucy, l’icona dell’evoluzione umana, avvenne nel 1974. Subito si pensò che così si sarebbero chiarite le nostre origini. Ma oggi, dopo 40 anni di ricerche, è chiaro che non di «albero evolutivo» si deve parlare quanto di un folto cespuglio, dal quale solo pochi rami si sono spinti fino al presente.
Siamo in viaggio da oltre 2 milioni di anni, da quando i primi esemplari del genere Homo si diffusero dal continente africano nell’Eurasia e oltre. Un viaggio geografico e cronologico di cui conosciamo molti dettagli grazie a studi paleantropologici, archeologici e genetici. La nostra solitudine come specie è abbastanza recente: abbiamo avuto molti avi, fratelli e sorelle e cugini, soprattutto tra 4 e 2 milioni di anni fa, quando specie differenti popolavano l’Africa, come spiega Luca Bondioli, paleoantropologo al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.
«I Vecchi»: Ardi
L’epoca è 4,4 milioni di anni fa. Protagonista è l’Ardipithecus ramidus. Il più antico e più probabile antenato dell’uomo aveva un cervello piccolo, pesava 50 kg e visse nell’attuale Etiopia. «Bacino, piedi, gambe e mani - spiega Bondioli - suggeriscono che si spostasse come un bipede sul terreno e come un bipede-quadrupede sugli alberi». Fu considerato come una scoperta altrettanto importante di quella di Lucy. I ricercatori ritengono che sia proprio Ardipithecus il primo genere di ominide apparso dopo la differenziazione fra umani e scimmie, ma esistono anche altri candidati: Toumai (Sahelanthropus tchadensis, di 7 milioni) e Orrorin tugenensis (detto anche Millenium Man, di 5-6 milioni). Tutto dipende anche da quando si colloca la separazione tra noi e gli scimpanzé che probabilmente avvenne tra i 9 e i 5 milioni di anni fa.
Lucy e il «parente»
Se Lucy è la più nota, l’australopiteco femmina risalente a circa 3,2 milioni di anni fa, risale invece a 3.5-3.3 milioni di anni fa l’Australopithecus deyiremeda, che coabitava con Lucy stessa, ma aveva dieta diversa. Scoperto da pochissimo, aumenta ancora di più la «confusione» del cespuglio e mostra - dice il professore - come la nostra storia naturale sia stata più complessa di quanto ritenessimo.
L’enigmatico A. gahri
La scena si sposta a 2,5 milioni di anni fa: questo è un altro Australopithecus, ma non è molto ben documentato e le recenti scoperte di un frammento fossile, di 2,8 milioni di anni, fa vacillare la sua candidatura a nostro progenitore.
L’ibrido sediba
Risale a 1.9 milioni di anni. Scoperto nel 2010, nel sito di Malapa vicino a Johannesburg, questo Australopithecus visse in contemporanea con i primi Homo. Da alcuni - dice Bondioli - è considerato «un mosaico di caratteristiche australopitecoidi e di altre più simili a Homo. Probabilmente aveva una vita con una forte componente arboricola».
È comunque chiaro che, nella complessa articolazione del «cespuglio», si ritrovano sempre di più specie con caratteristiche a mosaico: alcune primitive e altre moderne. È un fenomeno che si è osservato ora anche con l’Homo naledi.
Erectus ed ergaster
Vissero da 2 milioni a circa 100 mila anni fa in Asia: sono le prime forme di Homo diffuse su tutta la Terra, le più simili a noi, nel fisico e forse nella socialità.
La galleria del tempo
Ecco, così, tracciata una galleria di antenati, naturalmente per sommi capi: è il risultato di rapide occhiate dal buco della serratura dei ritrovamenti rispetto ad una storia di molti milioni di anni. Sono come i fotogrammi sparsi di un mondo infinitamente più vasto e più ricco. «Quello a cui ambiamo, nell’incompletezza delle nostre conoscenze e dei dati a nostra disposizione, è di arrivare ad un quadro finalmente coerente dell’evoluzione umana», spiega Bondioli. E ora l’Homo naledi apre nuovi scenari.
Il nodo della datazione
«Questa scoperta inattesa e ancora da valutare - aggiunge - ci dà la speranza di allargare quel piccolo buco nella porta del tempo, dal quale spiamo la nostra storia. I resti dei 15 individui rinvenuti nella grotta di “Rising Star” e le aree ancora da scavare costituiscono, da soli, una quantità di materiale fossile umano più abbondante di quanto ne abbiamo scoperto in tutta l’Africa dal 1924 ad oggi: lo commentavo proprio con John Hawks della University of Wisconsin-Madison, uno degli autori della scoperta in Sud Africa».
Gli studiosi nel mondo
Una datazione certa al 100% avrebbe di sicuro reso l’annuncio rivoluzionario, conclude il professore italiano. Ma, comunque, «in queste ore i 500 paleoantropologi di tutto il mondo che stanno leggendo gli articoli scientifici sulla scoperta sanno che c’è un aspetto più che significativo e che, forse, ci costringe ad attribuire un pensiero simbolico e capacità cognitive complesse a ominini con un cervello non più grande di quello di un gorilla».

nell’immagine; la copetina del fascicolo di di ottobre di National Geographic Magazine.
Ricostruzione di John Gurche del volto di Homo naledi. Foto: Mark Thiessen/National Geographic