domenica 20 settembre 2015

La Lettura del Corriere 20.9.15
Terra, aria, anima e poi il golem
L’impasto perfetto ha il suo contrario
di Stefano Gattei


Nasce da un impasto di terra e d’aria, la vita. Occorre che la materia prenda forma. Che la forma riceva un’anima. Risuona la Genesi : il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita; e l’uomo divenne un essere vivente. A cinque anni il Gesù dei vangeli apocrifi ha già imparato la lezione del Padre: modella dodici passerotti con la creta, poi batte le mani e li fa volar via. Non vi è tradizione spirituale che non immagini forma e vita tratte da un impasto. Per i babilonesi di quattromila anni fa, il dio Ea aveva creato l’uomo mischiando argilla al sangue del nipote Kingu. Nel 1953, in tempi di escalation nucleare, Ron Hubbard fonda Scientology sulla fede nel theta , lo spirito che ha dato origine al mest , materia, energia, spazio e tempo, e che anima il corpo definendo l’individuo.
Forma e anima sconfiggono il caos dell’ammasso indistinto nei grandi racconti della creazione, ma soprattutto nel quotidiano, nei gesti semplici, ripetuti da generazioni. È ciò che accade quando gli ingredienti sono buoni e vanno bene insieme. Quando la mano che li unisce è abile e paziente. Quando c’è passione e progetto. La farina si mescola all’acqua, al sale, al lievito. La pasta del pane è già «varietà di forme e di consistenza» scrive il monaco Enzo Bianchi, prima che la cottura «aggiunga colore, profumo e fragranza e inglobi nel greve impasto la leggerezza e il soffio spirituale dell’aria».
Torino Spiritualità ha scelto il tema dell’«impasto umano» come chiave della sua undicesima edizione. La sfida esistenziale è molteplice: riconoscersi incompiuti, in costante ricerca di definizione, cercare per ciascuno una forma, un soffio, accettare la terra e l’aria di cui siamo composti, fare i conti con il creatore, se crediamo ne esista uno, o con la sua assenza. La ricerca è anzitutto individuale, ma la questione dell’impasto umano supera il singolo. È collettiva, sociale e persino politica. L’«impasto umano» è questo mondo globale che stenta a convivere con se stesso, che persegue forma e vita, e intanto deforma e uccide. L’impasto, infatti, può generare mostri. Tolkien immagina una razza di orchi nati dal fango che ribolle nelle viscere della terra. Nel Signore degli anelli cinematografico gli uruk-hai sgusciano repellenti fuori dall’involucro. Frutto dell’amplesso tra terra e spiriti maligni, sono pronti a portare la distruzione. Come le fucine di Isengard, tanta religione contemporanea crea deformità e morte. Perché mette troppa terra nell’impasto e sprofonda sotto il proprio peso, o perché mette troppa aria, e vola via.
Al contrario, l’«impasto umano» ha bisogno di equilibrio tra terra e aria, tra accettazione dell’indefinitezza e tensione a individuare. Come scrive Armando Buonaiuto nell’introduzione al tema sul sito di Torino Spiritualità, la nostra «vertiginosa indeterminatezza» nasconde «la più preziosa delle potenzialità umane: potersi scolpire forma dopo forma, pensiero dopo pensiero, fino a divenire “sorpresa” perfino per se stessi».
L’impasto è necessario perché mescola, ma è vitale solo se va oltre il mero atto di mescolare. Enzo Bianchi ricorda una massima del suo Monferrato: ames-ciúm nenta el robi !, «non mescoliamo le cose!». È un principio d’ordine, egli scrive, che esige «trasparenza di pensiero, chiarezza di discorso, rettitudine nell’agire»; principio fecondo «per il dare forma alla propria vita», da cui il comando «nessun appiattimento in un magma indefinito». Solo così l’«impasto umano» può prendere forma e vita. Il golem della tradizione ebraica racchiude il senso più intimo della sfida. Manca l’essenziale al gigante d’argilla fabbricato da un temerario che si crede in possesso della formula creatrice. Esso può servire il suo padrone, può ripetere azioni, ma non ha anima.
Nella sua poesia sul golem, Jorge Luis Borges immagina un rabbino animare il «fantoccio che avea con lente mani foggiato» e quello aprire poco a poco occhi «non d’uomo ma di cane e anzi più che di cane di cosa». Immagina ancora, Borges, il rabbino mentre guarda la sua creatura mostruosa «con tenerezza e orrore» e infine si chiede cosa pensi Dio stesso «guardando il suo rabbino in Praga». È questo il dilemma ultimo dell’«impasto umano»: cosa può l’uomo e cosa sa fare solo Dio.