domenica 6 settembre 2015

Il Sole Domenica 6.9.15
Primo Levi/1
Quella zona grigia nella vita di tutti
di Marco Belpoliti


Il primo testo in cui Primo Levi parla esplicitamente di “zona grigia” è nella nota alla sua traduzione de La notte dei Girondini di Jacob Presser, romanzo uscito presso Adelphi nel 1976. Scrive: «da molti segni pare sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa le vittime dai carnefici, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non sia stato fatto ad esempio in alcuni recenti film ben noti». Levi allude a Il portiere di notte di Liliana Cavani. Un anno dopo ritorna sul tema in un racconto pubblicato su La Stampa. Vi narra la storia di Chaim Rumkowski, un industriale ebreo fallito diventato il capo del ghetto di Lodz in Polonia, collaboratore dei nazisti. Passeranno poco meno di dieci anni prima che pubblichi I sommersi e i salvati, il suo libro più importante, quello in cui riflette sul valore della testimonianza, sulla memoria delle vittime, sulla responsabilità dei deportati. Il capitolo La zona grigia è quello centrale; vi riprende e amplia riflessioni già presenti, quarant’anni prima, in Se questo è un uomo. Nei Lager nazisti la classe dei prigionieri-funzionari ha costituito l’ossatura stessa del campo e ne è stato «il lineamento più inquietante». Nel campo esiste «una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare». Appartiene alla “zona grigia” chiunque sia riuscito a ricavarsi una nicchia, a impersonare un mestiere e un’attività anche minima, che gli consenta di elevarsi sopra la massa dei deportati, così da sopravvivere in quelle condizioni estreme. L’elenco che Levi fa è indicativo: scopini, lava-marmitte, guardie notturne, stiratori di letti, controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. Tutti poveri diavoli, che si adattavano a svolgere funzioni “terziarie” innocue, talvolta inutili, spesso inventate dal nulla. Nel campo non c’è la divisione amico-nemico, ma la linea passa attraverso i prigionieri stessi, dal momento che i collaboratori più attivi delle SS sono i deportati stessi, sovente ebrei, come Chaim Rumkowski, alla fine gasato lui stesso.
Il tema centrale della “zona grigia” è il rapporto con il potere. Nel Lager, come nella vita normale, aggiunge Levi, «esistono persone grigie ambigue, pronte al compromesso». La tensione estrema del Lager «tende ad accrescerne la schiera». Sin dalle prime pagine del capitolo è chiaro che per Levi non si deve confondere vittime e carnefici, coloro che cercavano di sopravvivere adattandosi alla logica del Lager esercitando un minimo di potere e gli aguzzini che li opprimono. Un conto sono i carnefici, magari pentiti, e un altro le vittime. Scrive: «non bastano gli errori e i cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi». Nei Lager nazisti è presente «un campione medio, non selezionato di umanità» e, se anche non si volesse tener conto dell’ambiente infernale del campo, in cui erano precipitati, è assurdo e illogico pretendere dai deportati «il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai filosofi stoici». Cita una frase di Alessandro Manzoni tratta da I promessi sposi: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora cui portano l’animo degli offesi». Il giudizio è chiaro: le condizioni in cui sono tenuti i deportati, tra percosse, lavoro, denutrizione, freddo, li ha condotti a una condizione di pura sopravvivenza, ragione per cui non sono responsabili fino in fondo del loro comportamento. Levi non giudica, indica un problema: qual è il grado di coinvolgimento con il potere di ciascuno? Concludendo il racconto del caso di Chaim Rumkowski aggiunge: «anche noi siamo così abbagliati dal potere da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno». L’altro tema che emerge dal capitolo, e strettamente connesso con quello del potere, è reso esplicito dai Sonderkommandos di Auschwitz. Si tratta della Squadra Speciale composta di deportati, per lo più ebrei, cui le SS avevano affidato la gestione dei crematori: introducevano le vittime nelle camere a gas, estraevano i cadaveri, cavano denti d’oro dai morti, smistavano i vestiti, trasportavano i corpi ai crematori, estraevano le ceneri. Era un modo per prolungare la vita di qualche settimana o mese, perché poi anche la Squadra Speciale era eliminata e altri deportati prendevano il posto. Levi sospende il giudizio su di loro, non li condanna, li compiange piuttosto, come fa per il capo del ghetto di Lodz; le conclusioni cui arriva sono invece molto importanti. La questione radicale che pone in questo capitolo de I sommersi e i salvati, come ha notato Simona Forti, a dominare nel Lager non è l’assolutizzazione della morte, quanto piuttosto l’assolutizzazione della vita. Levi mostra come il desiderio di massimizzare la vita sia nel campo di sterminio il valore supremo. L’attualità delle sue riflessioni sta nel fatto che questo medesimo obiettivo è diventato anche il valore supremo della vita contemporanea: la sete di vita ci fa dimenticare che la morte è parte della vita stessa. Per questo la “zona grigia” ci riguarda tutti.