domenica 27 settembre 2015

Il Sole Domenica 27.9.15
T. S. Eliot (1888-1965)
La guerra desolata
La «Waste Land» può essere considerata lo spartiacque tra i detrattori della «bellezza dei conflitti» e gli «indifferenti»
di Renzo S. Crivelli


Una specifica chiave di lettura della Waste Land, non particolarmente esaminata dalla critica del Novecento, riguarda il suo collegamento diretto con la tragedia della prima guerra mondiale. In primo luogo perché questo poemetto viene scritto quasi due anni dopo la sua fine ed è pubblicato quattro anni dopo. In secondo luogo perché si è andata sempre più consolidando l’idea di una sostanziale “estraneità” del poeta ai fatti diretti della carneficina. Certo, non partecipò di persona né fu sulle trincee, come invece avevano fatto tanti poeti inglesi, semplicemente perché cittadino americano fino al 1927. I cosiddetti War Poets – da Rupert Brooke a Siegfried Sassoon, da Isaac Rosenberg a Wilfred Owen – ci hanno lasciato memorabili opere dal forte realismo descrittivo, così come altri americani – da Ernest Hemingway a Edward Eastlin Cummings – hanno consegnato alla letteratura pagine toccanti, spesso denunciando l’assurdità della morte nelle trincee (basti pensare a A Farewell to Arms e The Enormous Room).
Più recentemente è emersa una nuova percezione dello stretto rapporto intercorso fra Eliot e la grande guerra. Innanzi tutto va detto che la parte finale della poesia in francese Dans le Restaurant, collocabile intorno al 1914, contiene un’allusione alla figura di Phlebas che verrà recuperata nella IV sezione della Waste Land. Da qui il collegamento tra “durante” e “dopo”, nel quadro immaginifico ed emotivo del poeta, che può indicarci come e perché la Waste Land può essere considerata un poemetto “sulla” guerra. A significare che il “quadro” immaginifico almeno di una sezione (la IV intitolata Death by Water), trae le sue origini da eventi contemporanei al massacro degli eserciti in Europa. Certo, quando la guerra scoppia, Eliot si trova in Inghilterra con una borsa di studio per il Merton College di Oxford, e sta scrivendo la sua tesi di dottorato sulla filosofia di F.H. Bradley. Ma il suo status è quello di «americano non belligerante», e il suo coinvolgimento più diretto si manifesterà solo quando, ultimata la tesi nel 1916, non se la sentirà di oltrepassare l’Oceano su una nave passeggeri per andare a Harvard a discuterla, specie dopo la tragedia del siluramento del Lusitania ad opera di un U-Boote tedesco. Inoltre, se vogliamo cercare un riscontro con i War Poets, va detto che Eliot non ha una particolare considerazione per la poesia delle trincee. La considera dettata essenzialmente da uno stato emotivo immediato e spaventoso. Questa sua opinione – fortemente discutibile – sarà, molti anni dopo, espressa in uno dei suoi Occasional Verses, intitolato A Note on War Poetry. Scritta nel 1942, quando vive – in questo caso sì – la seconda guerra mondiale sulla sua pelle svolgendo la mansione di “avvisatore bellico” sui tetti di una Londra devastata dalle micidiali V1 e V2 tedesche, questa poesia espone molto bene il suo punto di vista sulla testimonianza diretta dei combattimenti: «Sembra proprio possibile che una poesia possa scaturire / da una persona molto giovane: ma una poesia non è poesia – / la poesia è una vita. // La guerra non è una vita: è una situazione, / qualcosa che non può essere né ignorata né accettata, / un problema da affrontare con agguati e stratagemmi, / circoscritti o sparsi»).
Per Eliot un War Poet non è necessariamente un poeta; può scrivere cose intense, legate allo stato di eccezionale tensione nel momento in cui sta rischiando la vita, ma non per questo il risultato è sempre accettabile sul piano qualitativo. Una specie di reazione, questa, al concetto critico-interpretativo per cui «sono i grandi temi a fare grande la letteratura» (da Guerra e pace in poi…).
Stimolato da Miss Storm Jameson, curatrice di un volume sul contributo americano alla seconda guerra mondiale, a fornire il suo parere sulla poesia che “rende” emotivamente l’immediatezza dell’angoscia di morte sotto la pressione bellica, Eliot entra nel dibattito sulla “plausibilità” della poesia militante (erano in molti, infatti, a chiedersi se la war poetry fosse vera poesia e potesse essere fruita con la stessa valenza coinvolgente da persone che non avevano vissuto la tragica esperienza dell’autore). Egli ritiene pertanto che per guerra si intenda solo la guerra, e che essa non possa sostituire la vita. Così come una poesia occasionale non può prendere il posto di uno status poetico permanente («Ciò che è durevole non può sostituirsi al transitorio»). Questa potrebbe essere la ragione per cui nella produzione poetica del primo periodo non figura nessun componimento direttamente collegato alla guerra. La vera poesia risiede per lui in una consapevolezza molto più duratura dei problemi legati allo stato esistenziale; e ciò deve avvenire in una prospettiva ben più vasta di quella di un conflitto, quand’anche “mondiale”.
Ma è un fatto che, come la critica comincia a riconoscergli, Eliot ha voluto “scrivere” nella Waste Land la guerra a posteriori, trasformando i suoi versi da “occasionali” a universali – e permanenti – attraverso gli effetti morali e politici della sua tragedia. Egli, dunque, sceglie di osservare non più il contingente, assoggettato all’effimero, ma la sua lunga proiezione nel tempo. La “terra desolata”, infatti, è quella di un’Europa che ha abdicato alla propria dignità umana, iniziando il suo decadimento.
Eliot, pertanto, sia per certe sue ambiguità iniziali e per l’alta levatura della sua poesia, sia – vieppiù – per il grande affresco che ha saputo darci della rinuncia ai valori dell’Europa bellica e post-bellica, può essere sicuramente considerato come il principale spartiacque tra, da una parte, gli intellettuali detrattori della “bellezza della guerra” e, dall’altra, gli “indifferenti” scarsamente coinvolti dalla retorica della propaganda militarista del tempo. Il suo atteggiamento nei confronti del primo conflitto mondiale, infatti, appare tanto sottotono durante gli anni della carneficina quanto impegnato alla fine delle ostilità; e volto a una riconsiderazione dei colossali guasti morali che la carneficina ha prodotto nelle nuove generazioni (non escludendo la sorte drammatica dei sopravvissuti).