domenica 6 settembre 2015

Il Sole 6.9.15
Il lavoro e la risposta «ricardiana» alla crisi
di Luca Ricolfi


Che la lunga crisi iniziata nel 2007 abbia profondamente colpito l'economia italiana è cosa di cui tutti siamo consapevoli. Sappiamo che centinaia di migliaia di imprese hanno dovuto chiudere, sappiamo di aver perso un milione di posti di lavoro, sappiamo che il numero di famiglie in difficoltà è raddoppiato (fino a superare il 30%, nel 2012-2013), sappiamo che il Pil è diminuito di circa il 10%, sappiamo che la capacità produttiva del sistema economico si è contratta del 20 o 25%. Sappiamo anche che ora, per fortuna, le cose vanno un pochino meglio, e che il bilancio dell'ultimo anno è di nuovo positivo: 180 mila posti di lavoro in più, e quasi altrettanti recuperati sotto forma di minore ricorso alla cassa integrazione.
Quel che forse sappiamo di meno, o meno attira la nostra attenzione, è invece in quale modo il sistema-Italia si è modificato in questi anni di distruzione più o meno creativa. Siamo perfettamente coscienti del ridimensionamento quantitativo che abbiamo dovuto sopportare, ma lo siamo molto di meno dei cambiamenti qualitativi che i nostri tentativi di rispondere alla crisi hanno prodotto e stanno tuttora producendo.
Prendiamo il mercato del lavoro, forse il migliore specchio delle dinamiche della crisi. Se come punti di riferimento consideriamo i due picchi estremi della crisi, ossia il 2008 e il 2014, i posti di lavoro perduti sono 954 mila. Questa distruzione di posti di lavoro, tuttavia, è il saldo fra le perdite di alcune categorie di lavoratori e gli incrementi di altre. I lavoratori di nazionalità italiana, ad esempio, hanno perso 1 milione e 650 mila posti, ma i lavoratori stranieri ne hanno guadagnati circa 700 mila. I lavoratori relativamente giovani (under 45) hanno perso 2 milioni e 700 mila posti, ma quelli relativamente vecchi (over 44) ne hanno guadagnati quasi 1 milione e 800 mila. E dentro ciascuna di queste categorie, le donne occupate sono sempre andate meglio dei maschi: là dove l'occupazione si è contratta (fra gli italiani e fra i relativamente giovani), lo ha fatto di meno per le donne che per i maschi, e là dove l'occupazione è cresciuta (fra gli stranieri e i relativamente vecchi) lo ha fatto di più per le donne che per i maschi.
Complessivamente, il crollo dell’occupazione è integralmente maschile: le donne occupate, anzi, sono sia pure leggerissimamente aumentate fra il 2008 e il 2014. Queste divaricazioni, già notevoli in termini assoluti, diventano ancora più significative se espresse in percentuale: gli occupati maschi under 45 hanno perso il 21% dei loro posti di lavoro, le donne straniere over 44 li hanno incrementati del 58%.
In sintesi, possiamo dire che l’apparato produttivo dell’economia italiana si è ristrutturato privilegiando i vecchi sui giovani, le donne sugli uomini, gli stranieri sugli italiani. E inoltre, è il caso di notarlo, questa ristrutturazione è avvenuta con pochi investimenti e senza alcun aumento di produttività.
Come si spiega una simile risposta?
Sinceramente, non lo so. Però, pensando a questi dati, e ricordando il lungo dibattito sul mercato del lavoro che divise gli studiosi ormai quasi mezzo secolo fa (si era negli anni 70 del secolo scorso), mi si è affacciata alla mente una possibile spiegazione. Allora il tema, anzi l’enigma, che appassionava economisti e sociologi, era la caduta parallela del tasso di occupazione e del tasso di disoccupazione, un fenomeno iniziato durante il miracolo economico e che si era drammaticamente accentuato dopo la recessione del 1964 o, come allora si usava dire, dopo gli anni della “congiuntura” (1964-1965). Anche allora quello cui si assistette fu un processo di profondissimo rimescolamento della forza lavoro: l’apparato produttivo, a quei tempi dominato dall’industria e basato sulla grande fabbrica, puntò tutte le sue carte sui capofamiglia maschi “nel fiore degli anni” (copyright Marcello de Cecco), emarginando progressivamente le fasce deboli (donne, anziani, giovanissimi), non adatte ai ritmi e alle condizioni di un’organizzazione del lavoro di tipo tayloristico. La produttività riprese a crescere, ma più grazie alla qualità della forza lavoro che agli investimenti o alla ricerca di una diversa specializzazione (uscita dai settori tradizionali).
Oggi, apparentemente, sta succedendo l’esatto contrario: il lavoratore maschio “nel fiore degli anni” perde posizioni, e le imprese sembrano puntare soprattutto sulle fasce deboli, o tradizionalmente considerate tali: donne, stranieri, lavoratori relativamente anziani.
Il mio dubbio, però, è che quel che sta succedendo in questi anni sia solo apparentemente l’opposto di quel che accadde mezzo secolo fa. Forse, anziché osservare che l’apparato produttivo sta puntando sulle fasce deboli e sta espellendo quelle forti, dovremmo chiederci se non stiamo assistendo alla stesso film di sempre ma a parti in commedia invertite. Perché, oggi come dopo la crisi del 1964-65, gli investimenti ristagnano e, oggi come ieri, l’economia italiana attua una risposta di tipo “ricardiano” (così ebbe a definirla Marcello de Cecco in un magistrale saggio del 1972): puntare sui segmenti più produttivi della forza lavoro, marginalizzando quelli meno produttivi. La novità vera è che i segmenti più produttivi di oggi non sono più quelli di ieri e anzi, in certo senso, sono l’esatto opposto. A noi gli immigrati, le donne e i lavoratori (relativamente) anziani possono apparire fasce deboli della forza lavoro, ma si potrebbe invece supporre che, dal punto di vista di chi fa impresa, ora che l’era della grande fabbrica è finita e l’economia si è terziarizzata, sia semmai il contrario.
Gli immigrati sono quasi sempre molto più qualificati di quello che le loro occupazioni richiedono, ed hanno una disponibilità al sacrificio incomparabile con quella degli italiani (o meglio, degli italiani di oggi: la medesima diponibilità l’avevamo anche noi, ma negli anni 50). Ciò conferisce loro uno straordinario vantaggio sul mercato del lavoro: è molto difficile che un immigrato sia troppo poco istruito per il lavoro che gli viene richiesto, ed è assai raro che rifiuti un lavoro perché gli orari sono faticosi, o ci sono troppo poche ferie, o il sabato non è libero.
Le donne italiane, ormai da un quarto di secolo, hanno superato i maschi nel livello di istruzione. E, a parità di istruzione formale, si mostrano più capaci di una valutazione realistica della propria preparazione. Per un’impresa che deve assumere (ma anche per un professore universitario, per esempio…) è frequente trovarsi di fronte a ragazzi che si sopravvalutano e a ragazze che si sottovalutano.
Quanto all’età, è possibile che i relativamente anziani compensino con altre virtù la loro minore istruzione formale e familiarità con le tecnologie digitali. A parità di istruzione formale, sono più preparati dei più giovani semplicemente perché hanno frequentato scuole e università più esigenti. Nella ricerca di un lavoro sono meno schizzinosi (o meno choosy, come direbbe Elsa Fornero), perché hanno maggiori responsabilità familiari come genitori e nonni. Infine, in certe professioni possono risultare depositari di saperi in estinzione ma ancora indispensabili (è di questi mesi la notizia che, in Germania, alcune industrie sono costrette e richiamare in servizio ex operai ed ex tecnici perché i giovani neo-assunti non sono in grado di operare con determinati macchinari o procedure).
Se questa lettura della risposta italiana alla crisi dovesse avere qualche fondamento, bisognerebbe chiedersi in che misura essa possa essere considerata una buona risposta, ovvero una risposta in grado di rimetterci in carreggiata. Temo che la risposta sarebbe negativa. Tutto questo sommovimento non funzionò negli anni 60, e fu anzi una fra le cause dei conflitti sociali esplosi alla fine del decennio, nonché dei molti ritardi accumulati dall’economia italiana. Ma almeno, allora, si accompagnò a un aumento della produttività. Oggi non abbiamo nemmeno questa magra consolazione: la produttività ristagna dall’inizio del secolo, e la risposta del sistema-Italia alla crisi, ancora una volta centrata sul rimescolamento della forza-lavoro, non è valsa ad invertire il trend.