Il Sole 2.9.15
L’industria conferma i timori su Pechino
L’indice Pmi relativo al settore manifatturiero in flessione a 49,7, ai minimi da tre anni
di Rita Fatiguso
PECHINO Com’era prevedibile è arrivata la prova che l’industria manifatturiera in Cina ha subito in agosto un nuovo rallentamento, confermando indirettamente le difficoltà dell’intero sistema economico. L’indice Pmi (Purchasing managers index), al minimo da tre anni a questa parte, ha toccato quota 49,7 punti, in calo rispetto ai 50 di luglio. Rilevato dall’Ufficio nazionale di statistica, l’indice segnala il livello più basso dall’agosto del 2012. Com’è noto, un livello del Pmi superiore a 50 punti indica espansione dell’attività produttiva, al di sotto una contrazione.
Ieri le borse hanno aperto in calo, l’indice Shanghai Composite è sceso del 4,35%, quello di Shenzhen del 4,47%, Hong Kong perdeva in mattinata lo 0,95 per cento.
Per questo, per evitare contraccolpi e a sostegno del mercato la Banca centrale cinese ieri ha iniettato 150 miliardi di yuan (23,5 miliardi di dollari) nel sistema finanziario. La Banca centrale ha venduto contratti repo a sette giorni. Se Tokyo ha chiuso in calo del 3,8%, in chiusura Shanghai ha contenuto le perdite, Hong Kong chiude a meno 0,8 grazie anche a una mossa che segue le iniezioni di liquidità della scorsa settimana, al pari del quinto taglio del tasso di interesse da novembre e delle riduzioni del coefficiente delle riserve bancarie obbligatorie. In più, a sostegno dello yuan, la Banca centrale ha chiesto alle banche commerciali, a partire dal 15 ottobre, di mettere a riserva un 20% in valuta estera (dollari) che rimarrà congelato per un anno. Dopo il taglio del 2% del valore dello yuan dello scorso 11 agosto, la Banca è corsa ai ripari.
Non solo, la Cina sta cercando di ottemperare alle dritte del Fondo monetario apportando una lunga serie di modifiche tecniche, l’idea di riuscire a entrare nel salotto buono delle valute (il paniere dei diritti speciali di prelievo dell’Fmi) è diventata quasi un’ossessione, la prospettiva è vista anche dai tecnocrati come un modo per avviare realmente l’internazionalizzazione della moneta di Pechino. Quindi maggiore trasparenza nella comunicazione dei dati, un adeguamento progressivo a tutte le richieste del Fondo pur di raggiungere l’obiettivo che, come sappiamo, è stato spostato al 2016. La revisione del paniere, ha detto il Fondo, non pregiudicherà le aspettative di Pechino, ma ci vorrà ancora tempo prima del fatidico sì.
Ma la Cina ci tiene a raggiungere l’obiettivo e non demorde, ricorrendo a tutti i possibili strumenti in suo possesso pur di ottemperare alle richieste del Fondo.
Purtroppo la realtà industriale cinese corre su un altro binario e la grande, ennesima, esplosione in una fabbrica chimica dello Shandong a meno di un mese dall’esplosione di Tianjin che ha ucciso decine di persone solleva nuove preoccupazioni sulla sicurezza industriale in Cina.
Non si sa molto dell’esplosione che si sarebbe verificata poco prima di mezzanotte di due giorni fa a Dongying, una città nella provincia orientale dello Shandong. Sui social network sono circolate immagini che hanno mostrato una palla di fuoco su quella che sembrava essere una zona industriale. L’episodio arriva dopo che il 12 agosto esplosioni a raffica nella città di Tianjin hanno ucciso almeno 158 persone e sollevato il tema del controllo delle sostanze chimiche pericolose stoccate in Cina. Il magazzino al centro dell’esplosione custodiva materiale tossico, comprese centinaia di tonnellate di cianuro di sodio, una polvere bianca che viene comunemente usata nell’industria mineraria industriale per estrarre l’oro dalle rocce.
Non è solo il Pmi, dunque, a creare problemi all’economia cinese, quanto lo stato e la gestione del sistema stesso che paradossalmente sembra dimostrare forti crepe proprio quando la Cina, a poche ore dalla grande parata, si prepara a mostrare al mondo un’altra faccia, sicura, di nazione pronta a dominare se non il mondo almeno una porzione consistente.