domenica 27 settembre 2015

Il Sole 27.9.15
La guerra civile
Così cambiò l’America
Bruce Levine ripercorre attraverso diari, lettere e documenti il conflitto che mise fine allo schiavismo e costò oltre 600mila vittime
di Valerio Castronovo


Malgrado la nascita di un forte movimento abolizionista (sorto inizialmente per impulso soprattutto del protestantesimo evangelico) e la vittoria riportata nelle elezioni presidenziali del 1860 dal candidato del partito repubblicano, fautore della causa antischiavista, non per questo il Nord si accingeva a far guerra al Sud per eliminare una volta per tutte lo schiavismo. Abraham Lincoln, l’avvocato dell’Illinois asceso alla Casa Bianca, non era un abolizionista radicale, intendeva piuttosto circoscrivere una pratica così ignominiosa mediante un’adeguata legislazione affinché non attecchisse ulteriormente.
A scatenare nell’aprile 1861 il conflitto furono i dirigenti sudisti, nel timore che l’indirizzo di Lincoln, fervente protezionista dell’incipiente industria del Nord, e l’avversione degli esponenti repubblicani a qualsiasi forma di lavoro servile, anche perché schierati a sostegno dei coloni di nuove terre, finissero per danneggiare gli interessi dei grandi proprietari fondiari delle loro contrade (la cui prosperità si basava sul lavoro coatto e il cospicuo “valore di mercato” di quattro milioni di uomini e donne di colore) e per ridurre progressivamente il ruolo degli Stati di cui erano a capo nell’ambito dell’Unione. Di qui la decisione di proclamare nel febbraio 1861 la scissione e di dar vita agli Stati Confederati d’America.
D’altronde, erano convinti della preminenza economica delle loro regioni. In effetti, esse vantavano, con il cotone delle piantagioni locali, la più preziosa risorsa prodotta allora negli Stati Uniti e che, smerciata in mezzo mondo, assicurava ingenti profitti (a non contare quelli, altrettanto lauti, della vendita all’interno e all’estero di zucchero, riso, canapa e tabacco). E se i sudisti potevano mettere in campo solo un esercito di un milione di uomini, rispetto al doppio dei propri rivali, contavano in compenso su soldati animati da un forte orgoglio e dalla voglia di battersi. Tanto che l’armata del Sud riportò per quasi due anni brillanti successi, grazie anche alla sua miglior organizzazione e alla genialità strategica del suo comandante, il generale Robert Lee.
Ma il Sud non riuscì alla lunga a reggere il confronto col Nord. Poiché, da quanto emerge da una nuova analisi di Bruce Levine, condotta in base a numerosi documenti di prima mano (come diari, lettere, articoli di giornale e rapporti governativi), il “punto debole” del Sud fu in pratica il graduale sfaldamento del suo “fronte interno” rispetto alla sua robusta compattezza originaria.
Innanzitutto, col protrarsi della guerra, i sudisti dovettero dar fondo ai soli loro mezzi, in quanto il blocco navale delle coste attuato dalla flotta nemica impediva sia l’esportazione di prodotti agricoli con cui finanziare le operazioni belliche sia l’importazione di nuovi armamenti (che invece l’industria del Nord stava producendo su vasta scala). Né potevano confidare su aiuti esterni, poiché le principali potenze europee osservavano in generale un atteggiamento strettamente neutrale.
Non secondariamente, i confederati si trovarono a che fare con una resistenza, non più solo passiva, opposta ai propri padroni da crescenti nuclei di gente di colore, sempre più insofferenti delle loro intollerabili condizioni di vita e convintisi che i nordisti intendevano condurre la guerra non solo più per obbligare gli Stati del Sud a ritornare nell’Unione ma anche per costringerli (all’insegna di una “crociata” etico-politica) a porre fine allo schiavismo.
Inoltre va messo in conto il fatto che nelle regioni collinari del Sud e altrove numerosi bianchi, che non possedevano terre, cercavano di sottrarsi ai bandi di reclutamento nelle file di un esercito che difendeva in pratica i privilegi di una casta di ricchi latifondisti e i cui oneri ricadevano sulla collettività. Si spiega pertanto, come dopo la sconfitta subita nel luglio 1863 nella famosa battaglia di Gettysburg, si manifestò, insieme a un clima di scoraggiamento per le sorti della guerra, un moto in alcuni strati sociali a favore della pace.
Ma, con i capi civili del Sud per lo più contrari a prendere in considerazione qualsiasi ipotesi che affrancasse almeno una parte degli schiavi, la guerra proseguì sempre più cruenta, anche se combattuta soprattutto da una massa di uomini di basso ceto via via arruolati nelle campagne. Di fatto, solo nell’aprile 1865 l’esercito unionista, a cui s’erano aggregati 180mila neri man mano liberati, riuscì ad avere la meglio.
In complesso la guerra aveva mietuto oltre seicentomila vittime (l’ultima delle quali fu lo stesso presidente Lincoln, assassinato il 14 aprile per mano di un fanatico sudista). Tanto venne a costare il conflitto che mise fine allo schiavismo: così che milioni di neri non vennero più comprati e venduti come qualsiasi altra merce o dei capi di bestiame. Non per questo, tuttavia, una schiera di facoltosi coltivatori del Sud si rassegnarono all’abolizione della schiavitù, tentando perciò di ripristinare sotto altre sembianze il lavoro servile; mentre vari ex politici e militari sudisti organizzarono delle sette terroristiche contro la popolazione di colore. Ci sarebbe poi voluto quasi un secolo perché venisse smantellato del tutto il regime di segregazione razziale nei riguardi degli afroamericani.
Bruce Levine, La Guerra civile americana. Una nuova storia , Einaudi, Torino, pagg. 423, € 32,00