giovedì 24 settembre 2015

Il Sole 24.9.15
Renzi tiene unito il partito e guarda al rimpasto
di Emilia Patta


Una strettoia che alla fine non aveva altra uscita che la scissione. Questa, in fin dei conti, la via su cui la minoranza del Pd si era incamminata e che è stata abbandonata in tempo utile. Portare fino in fondo la battaglia contro il Senato delle Autonomie eletto in secondo grado dai Consigli regionali avrebbe infatti comportato il “no” anche al referendum confermativo che si terrà se tutto andrà secondo i tempi stabiliti, emendamenti di Calderoli a parte nell’autunno del 2016. Un’ipotesi da fantapolitica, per chi fa parte dello stesso partito di un segretario e premier che ha puntato molto su quell’appuntamento: riformisti da una parte, conservatori dall’altra. O dentro o fuori. E la minoranza del Pd ha deciso saggiamente di restare dentro. Da qui lo scongelamento degli ultimi giorni, frutto anche della considerazione che il popolo democratico non avrebbe compreso una rottura su un comma di un articolo piuttosto che un altro. E da parte sua il premier, che ha il piglio politico del combattente, ha avuto in questo caso la saggezza di aprire l’unico spiraglio possibile: l’intervento sul comma 5 dell’articolo 2, appunto, in quanto unico comma di quell’articolo modificato dalla Camera secondo il principio che governo e maggioranza hanno assunto della doppia copia conforme (non è più emendabile quanto già approvato nell’identico testo da entrambe le Camere). E alla fine il risultato come ammette un renziano come Giorgio Tonini, vicecapogruppo del Pd in Senato è «migliorativo». A dimostrazione che quando si sta sul merito il confronto può essere positivo. Come accaduto già con il Jobs act durante i lavori della commissione Lavoro della Camera presieduta dall’esponente della minoranza “lealista” Cesare Damiano e come accaduto anche con l’Italicum, nonostante i 40 no alla fiducia messi in mostra dai bersaniani a Montecitorio, dal momento che nella seconda versione la legge elettorale ha accolto molte delle richieste migliorative della minoranza del Pd. Ma certo Renzi non è un politico che cede sui principi per lui inderogabili: non ha ceduto sull’articolo 18, e anche nel caso della riforma costituzionale, pur con la modifica che fa sì che i futuri senatori saranno «scelti» dagli elettori nell’ambito delle elezioni regionali, i principi sono rimasti. Ossia l’elezione giuridicamente di secondo grado (sono i Consigli regionali che eleggono i senatori in base alla scelta dei cittadini) e il fatto che i futuri senatori non godranno di un’indennità propria essendo pagati dalla Regione come consiglieri.
Questo tenere il punto sui principi di fondo delle riforme messe in campo porta a un’altra considerazione. Il metodo Mattarella invocato da Pier Luigi Bersani, ossia il confronto interno al Pd per giungere a un compromesso diverso dalle posizioni di partenza, è un metodo che è andato bene per l’elezione del presidente della Repubblica ma non è un metodo che Renzi ha intenzione di replicare. Anche il modo in cui è stata condotta la trattativa è significativo: il premier ha fatto la sua apertura in una occasione pubblica (la direzione del Pd) e ha lasciato la sintesi al lavoro dei senatori, ma non c’è stato alcun incontro con i leader della minoranza, a partire dallo stesso Bersani. Renzi insomma non tratta con la minoranza interna, e non lo fa non solo per un suo tratto caratteriale ma per una ragione politica: il tempo dei “caminetti”, con tutti i leader riuniti che dettavano le condizioni al segretario, è finito per il semplice fatto che le primarie aperte hanno cambiato e rafforzato enormemente la base di legittimazione del leader del Pd. Ieri lo stesso Bersani, oggi Renzi, domani un altro o un’altra.
Alla minoranza del Pd, esclusa la via della scissione, non resta che contribuire nel merito dei provvedimenti cercando di far passare le modifiche ritenute utili: questa la lezione di fondo della vicenda sull’elettività dei senatori. Preparandosi legittimamente, nel contempo, al confronto congressuale del 2017 a partire dall’individuazione di una leadership adeguata. Anche nell’intento di far prevalere in tutta la minoranza il metodo dei “lealisti” il premier sta studiando il mini-rimpasto che ci sarà con ogni probabilità dopo l’approvazione del Ddl Boschi in Senato per riempire le caselle rimaste vuote. L’idea è sempre quella di coinvolgere nel governo con un ruolo di primo piano (sottosegretario alla Presidenza o viceministro allo Sviluppo) una personalità come quella di Vasco Errani, definito dallo stesso Bersani «amico fraterno». Così come la nomina di Enzo Amendola a viceministro agli Esteri, data da tutti per scontata, ha il significato di premiare quella minoranza “lealista” che sulla fiducia all’Italicum si è stac cata da Bersani e dai suoi.