Il Sole 24.9.15
Intesa, gli effetti opposti sul Pd e il ruolo del Colle
Non solo le rotture ma anche le intese producono reazioni a catena
Succede che nel Pd, dopo la mediazione sul Senato, non si parli più di scissione e che, invece, in Forza Italia non solo se ne parli ma stia già accadendo
di Lina Palmerini
L’accordo raggiunto sul Senato è solo una tappa, come lo è stata l’intesa sull’elezione di Sergio Mattarella. Sul momento il Pd trovò la sua compattezza, la minoranza affermò un suo ruolo e Renzi riuscì a non fare quello che Bersani aveva fatto, ma durò poco. Perché a far esplodere di nuovo le tensioni furono le elezioni amministrative, prima ancora che il Jobs act. E così accadrà anche questa volta. Ci saranno sicuramente battaglie di “sinistra” sulla legge di stabilità – sulla sanità, pensioni o Tasi – ma non avranno la forza di quell’ultimatum che si è sentito sulla riforma del Senato perché ci si avvicinerà alle amministrative. È lì che si risentirà il “richiamo della ditta” perché le comunali mettono in ballo pezzi di partito sul territorio, ceto politico da arruolare con la minoranza o con la maggioranza. I giochi si riapriranno a gennaio quando si tratterà di selezionare i candidati per città come Milano o Napoli.
Dall’altra parte dell’emiciclo, l’intesa sul Senato sta producendo una scissione soft: Forza Italia come un rubinetto che perde sta lasciando al suo destino i gruppi parlamentari. La decisione di Berlusconi di annullare senza una ragione l’assemblea dei senatori suona come un tana libera tutti. Ma soprattutto lo sbando sembra sia dovuto all’intenzione – detta dal Cavaliere – di non ricandidare nessuno dei parlamentari. L’effetto, appunto, è che molti cominciano a correre da Verdini per cercare – almeno – di far durare la legislatura.
E se la mediazione ha i suoi effetti collaterali – e opposti – in Pd e Forza Italia, un ruolo lo ha avuto anche il Colle. Qualche giorno fa, prima della direzione Pd, Vannino Chiti è andato al Quirinale. Erano i giorni cruciali delle trattative, quelli in cui sembrava che davvero si sarebbe arrivati a una rottura dentro al partito con il rischio di mettere fine anche alla legislatura. Al Senato raccontano di quel faccia a faccia tra il senatore della minoranza e il capo dello Stato e di come, poi, più facilmente si sia trovata la scappatoia politico-lessicale. E altri colloqui avrebbe avuto il Colle anche con la maggioranza renziana per aiutare una soluzione da offrire in quella direzione di partito di lunedì scorso. Insomma, che il Quirinale abbia favorito l’intesa è noto nei piani alti di Palazzo Madama, ed è ovvio visto che le conseguenze su un mancato accordo si sarebbero sentite sulla legislatura. Naturale che il Colle se ne occupasse.
E in qualche colloquio si è ragionato non solo sulla riforma del Senato ma anche sulle conseguenze di una rottura nel Pd. Era noto che il capo dello Stato non considerasse lo scioglimento anticipato delle Camere come una delle opzioni, ipotesi che riteneva deleteria per il Paese per più di una ragione: la legge di stabilità e la sessione di bilancio che sta per arrivare, il contesto economico, la crisi migratoria. Ma alcuni raccontano che al Colle si sia fatto notare che il potere di scioglimento o non scioglimento non sia assoluto. E che si sia ricordato un precedente: aprile 1987, cade il Governo Craxi, l’allora presidente Cossiga non vuole sciogliere e affida, dopo altri tentativi, l’incarico a Fanfani che forma un Esecutivo monocolore Dc, va a giurare da Cossiga ma, poi, non ottiene la fiducia. Non la ottiene perché la Dc, segretario De Mita che vuole le urne, si mette di traverso e Martinazzoli, capogruppo alla Camera, fa la dichiarazione per l’astensione. Risultato: Cossiga prende atto e scioglie le Camere. Il precedente rende chiaro quale peso abbia il partito di maggioranza relativa: per entrambi i duellanti del Pd, il non accordo avrebbe avuto un esito incerto e – in ogni caso lacerante. Meglio la mediazione.