martedì 22 settembre 2015

Il Sole 22.9.15
I lavori forzati della mediazione
di Lina Palmerini


Un altro angolo. Dopo lo scontro sull’Italicum, ora la minoranza Pd si trova davanti allo stesso dilemma con una complicazione in più. Che alla Camera i numeri consentivano di non indietreggiare e non votare la fiducia ma al Senato si rischia di far saltare tutto. Più semplice mediare.
Ed è proprio questo che complica la battaglia di Bersani e dei senatori dissidenti: che al Senato i numeri sono risicati e basta poco per far finire la legislatura e mandare a casa il Governo. In sostanza, a Palazzo Madama si fa sul serio e lo scontro – se tale deve essere – rischia di diventare fatale. E infatti i disgelo è arrivato in serata, dopo la direzione disertata dall'ex segretario Bersani che – però - ha fatto sapere di aver trovato aperture nel discorso di Renzi.
Il fatto è che il premier sembra nato e cresciuto proprio per gli scontri finali, quelli dove ci si gioca il tutto per tutto. Non arretra, non mostra timori, anzi rilancia – spesso - con troppo eccesso come è accaduto ieri con quell’affondo fatto sul presidente del Senato. Un chiaro avvertimento che lui, il premier, non accetterà in silenzio e di buon grado le decisioni che prenderà Piero Grasso sull’ammissibilità o meno degli emendamenti al fatidico articolo 2 né faciliterà eventuali nuovi governi dopo il suo magari proprio guidati dalla seconda carica dello Stato. Insomma, questo per dire che quando ingaggia una battaglia, Renzi, si trova nel suo elemento.
Ed è stato anche abile a spingere gli avversari nell’angolo, a relegarli nel campo stretto di una modifica dell’articolo 2 sul comma 5, come dire si parla di dettagli. Mentre lui ha potuto elencare cose fatte e da fare: il Jobs act e la flessibilità spuntata dall’Ue, le tasse che vuol tagliare e le prime aperture dell’Europa sull’immigrazione. Merito e congiuntura favorevole, ma comunque per il premier un menù ricco in cui le battaglie della minoranza finiscono – per l’appunto – a un ruolo minore, meno appassionante per gli elettori.
Dall’altra parte, la sinistra Pd per poter reggere uno scontro con quello che è ancora il segretario del loro partito nonché premier, dovevano mettere sul tavolo carattere e argomentazioni. E invece ieri la cosa che più è saltata agli occhi è stata l’assenza di Bersani. Sarà pure vero che la direzione del Pd non conta nulla, che il voto era scontato perché la maggioranza ce l’ha Renzi, ma quando si vuole dare battaglia si sta nell’arena. Non solo per rispondere all’avversario politico ma anche per tenere compatte le proprie truppe. Che infatti ieri sembravano già meno compatte secondo i rumors del Nazareno che raccontavano di una minoranza divisa: una parte di irriducibili, un’altra più disposta alla mediazione.
E comunque per non finire nell’angolo dell’articolo 2 – cioè di un dettaglio, come gli rinfaccia Renzi – e per rendere credibile un braccio di ferro come quello che si sta consumando sul Senato, i dissidenti Pd avrebbero dovuto sporgersi così in avanti anche sul tema del lavoro e della riforma dell’articolo 18, anche sul tema della scuola. Invece in nessuno di questi fronti si è messa vicina alla rottura, si è mai mostrata così intransigente. L’impressione è che si sia concentrata sulla lotta contro il segretario e si sia preclusa la strada per quelle battaglie che gli elettori si aspettano da un’area di sinistra. Se le aspettano sulla legge di stabilità, per esempio, e sulle misure che metterà ai voti il premier. L’articolo sull’elettività dei senatori è di certo importante ma non può essere l’unico “piatto” nel menù di un’area politica che vuole essere alternativa al premier. E che non potrebbe restare dentro il Pd se staccasse la spina a un “suo” governo. Questo sarebbe un altro angolo.