Corriere 22.9.15
Il cammino della riforma e i conflitti da superare
di Francesco Verderami
Il presidente del Consiglio avrebbe molte argomentazioni per chiedere al presidente del Senato di dichiarare inammissibili quegli emendamenti all’articolo 2 della riforma costituzionale con i quali teme che i suoi avversari mirino a far saltare il provvedimento a cui è legato il senso (e la vita) di questa legislatura. Ma non c’è un solo motivo — né politico né istituzionale — che giustifichi l’attacco pubblico di Matteo Renzi a Pietro Grasso, che a pochi giorni dalle votazioni a Palazzo Madama non ha ancora reso nota la sua decisione.
Ragioni di convenienza politica oltre che di sensibilità istituzionale avrebbero dovuto indurre il premier a non formalizzare un contrasto peraltro evidente e per certi aspetti già pubblico, segnato da schermaglie verbali e da ripetuti e reciproci segni d’insofferenza dell’uno verso l’altro. Insomma, non è solo per questioni di etichetta che a Renzi sarebbe convenuto evitare la lezione di diritto parlamentare al presidente del Senato, e sostenere che sarebbe un «inedito» — dunque una clamorosa forzatura — se Grasso accogliesse quegli emendamenti.
I conflitti istituzionali hanno segnato la storia dell’Italia repubblicana fin dal suo atto di nascita, e va considerato fisiologico lo scontro di potere tra cariche dello Stato, ma sempre dentro l’ambito delle prerogative che la Costituzione assegna, e nel rispetto dei ruoli. E il rispetto contempla anche la riservatezza. Solo dopo l’apertura del suo archivio personale si seppe che Giuseppe Paratore si era dimesso nel 1953 da presidente del Senato perché contrario all’uso della fiducia sulla legge elettorale da parte del governo dell’epoca.
Altri tempi e altro stile? Fino a un certo punto, perché in anni recenti i rappresentanti del centrosinistra non hanno mancato di criticare Silvio Berlusconi, e di spiegargli come si usano forchetta e coltello al tavolo delle istituzioni. E quelle regole non possono essere violate. Anche perché non si vede quale utilità politica derivi dall’attacco di ieri: se si voleva condizionare la scelta del presidente del Senato, o addirittura se si mirava a infrangere quell’aura super partes dietro cui — questo è il sospetto — Grasso nasconderebbe l’intento di lavorare contro il presidente del Consiglio, c’erano altre strade.
Nel gioco delle parti, che è legittimo, l’obiettivo di tutelare la riforma in Parlamento era stato già raggiunto in modo efficace con la mossa di Anna Finocchiaro: quando la scorsa settimana al Senato, in Affari Costituzionali, la presidente della commissione ha cassato gli emendamenti della discordia, è stato chiaro che Palazzo Chigi — attraverso il gruppo parlamentare del Pd — stava tentando di anticipare ogni possibile mossa di Grasso, restringendone i margini di manovra in Aula.
E poi, se è vero che nel Pd maggioranza e opposizione sono ormai prossimi a un accordo sulle modifiche da apportare alla riforma costituzionale, il presidente del Senato aveva chiaramente fatto capire che — in presenza di un’intesa — si sarebbe adoperato per agevolarla in base alle sue specifiche competenze. Insomma, in direzione il premier avrebbe potuto limitarsi a intascare il dividendo politico, che è molto alto: perché l’accordo sulle riforme con la minoranza del Pd lo avvantaggia, dato che — superato questo tornante — il governo potrà dispiegare la propria azione in altri campi, a partire dall’economia.
È noto che Renzi modula la sua narrazione rivolgendosi (quasi) sempre all’opinione pubblica e (quasi) mai al Palazzo. Infatti, identificandosi con i giapponesi che hanno sorprendentemente vinto ai Mondiali di rugby contro il Sudafrica, ha saputo evocare nell’immaginario collettivo — e per contrasto — gli «ultimi giapponesi», cioè i suoi oppositori interni, impegnati secondo il segretario democratico in una battaglia di retroguardia già persa, condannati all’irrilevanza se non addirittura alla scomparsa, dato che «una scissione può essere usata come una minaccia ma non porta voti». Il riferimento alle elezioni in Grecia, con la vittoria di Tsipras e l’uscita di scena di Varoufakis, è stato efficace.
Ma un premier, oltre a saper parlare all’elettorato, deve saper convincere anche il Parlamento: perché è lì che si discute e si decide. E Renzi si trova ora a pochi passi dalla storica meta. Il primo sarà l’approvazione delle riforme. Il secondo verrà di conseguenza, e sarà l’adeguamento della legge elettorale, con l’assegnazione del premio di maggioranza a una coalizione e non più a una lista.