domenica 13 settembre 2015

Il Sole 13.9.15
Il Labour inglese sterza a sinistra, il marxista Corbyn nuovo leader: «Più Stato e più tasse per i ricchi»
di Leonardo Maisano


Si chiamano compagni, cantano Bandiera Rossa, credono nello Stato Padrone, detestano il nucleare e scriverebbero America con la K se un sussulto di malcelato modernismo non li trattenesse dalla tentazione di librarsi nel passato. Sono i 251mila militanti laburisti che ieri hanno eletto Jeremy Corbyn alla leadership del partito che fu di Tony Blair.
Un partito che, con la Terza Via di Tony Blair, vinse tre, storiche, elezioni di fila sulla scorta di programmi neo centristi. Tutte le asperità ideologiche che l’ex premier piallò con sistematica cura, rispuntano oggi, vagamente aggiornate, nel programma del leader sceso con irresponsabile leggiadria nella tenzone aperta dalle dimissioni di Ed Miliband dopo la sconfitta alle politiche di maggio. Neppure lui, deputato di lungo corso nel collegio londinese di Islington, ci credeva davvero. Correre, a 66 anni, contro il trend imperante del socialismo riformato da Blair e dopo la sconfitta di Miliband, accusato di radicalismo, pareva un esercizio di pura accademia politica.
Jeremy Corbyn, infatti, non aveva pensato di poter diventare l’unica risposta possibile in Gran Bretagna al fenomeno Syriza greco, ai 5 Stelle in Italia, a Podemos spagnolo, diversi fra loro, ma uniti da quel movimentismo che mobilita tante coscienze in Europa. “Our movement, our party...” ha detto ripetutamente dopo una vittoria che gli assegna il 59% del consenso interno, quaranta e più punti di differenza dal secondo arrivato nella corsa per la leadership, Andy Burnham. E non a caso. La sua vittoria nasce dall’aver generato, più per caso che per consapevole strategia, una forte spinta popolare. Ha recuperato elettori delusi, sovvertendo l’ordine interno del Labour. Non ha dato vita a un altro partito, ha invece trasformato quello esistente e ben radicato nella tradizione parlamentare britannica.
Nuova pelle e nuovi slogan per il Labour che discendono a cascata dal mantra che attraversa l’Europa chiedendo una “politica diversa” da quella consolidata. Il significato che Jeremy Corbyn assegna al concetto di “diversa” echeggia, in realtà, quello di “antica”. Ci sono Tony Benn e Michael Foot - storici capi della sinistra laburista - nei suoi programmi scolpiti attorno a principi ideologici che non nasconde, ma anzi sfoggia, contrapponendoli all’austerità dei Tory al potere, colpevoli di aver creato una società di diseguali da abbattere. Una battaglia senza quartiere quella di Jeremy, capace com’è di travolgere i confini dei sentimenti. La sua coerenza è stata messa a dura prova anche in casa se è vero che divorziò dalla sua seconda moglie cilena - conosciuta negli anni della lotta contro il regime di Pinochet - perchè aveva iscritto il figlio a una scuola selezionata e non all’istituto pubblico di zona.
Bagatelle per un massacro elettorale eterno? Lo dicono in tanti a cominciare da Tony Blair che vede il partito affidato a Corbyn come un sonnambulo che si aggira sul ciglio di un precipizio. I più ottimisti, fino a ieri, gli davano una manciata di mesi di vita prima delle dimissioni. Certezze crollate sotto i colpi dell’elezione: la vittoria è stata schiacciante con una mobilitazione della base del partito, dei simpatizzanti, delle unions che non ha precedenti. Il nuovo sistema di voto adottato dal Labour è correo di questa dinamica, avendo enfatizzato - non si escludono incursioni di conservatori decisi a far eleggere nel Labour esponenti radicali per poterli battere alle elezioni - il consenso per il vincitore. Recriminazioni inutili: con questo metodo di voto, la politica britannica deve fare i conti e da ieri i conti li deve fare con l’allampanato Jeremy Corbyn e la sua voglia di recuperare astenuti e agnostici della sinistra, interrompendo la corsa verso il centro teorizzata da Tony Blair. Per vincere, sembra dire, restiamo noi stessi e recuperiamo gli elettori che ci hanno lasciato. È una strategia che vedrà il Labour riformulare, da subito, le politiche verso gli Usa, la Nato, il Welfare, ma anche l’Europa che, dice, “va cambiata”. E quando un britannico annuncia di voler cambiare l’Unione si sa bene il punto di partenza, ma mai quello di arrivo. Un esempio? Jeremy Corbyn non ama il Ttip, la partnership commerciale transatlantica, perchè in odore di mercantilismo e globalizzazione, interpretando così le spinte più populiste della sinistra che il neo leader sa poi saziare con forti porzioni di pacifismo e internazionalismo. Appena eletto - gli ne va reso merito - ha partecipato a una marcia a favore di rifugiati e immigrati. Un buon inizio, questo, sul seguito restano dubbi. Molti dubbi.