Il Sole 13.9.15
L’Europa chiamata alla sfida più grande
di Adriana Cerretelli
Continua a salire la marea dei profughi in marcia sulla rotta dei Balcani: 40mila in Germania solo nel weekend, altri 6.900 in Austria. Nemmeno dal mare si fermano gli sbarchi. Da inizio anno ne sono arrivati oltre 500mila.
L’Europa subisce la valanga dei disperati alternando sprazzi di lucidità politica, marce di solidarietà popolare da Berlino ad Atene, da Londra a Varsavia e Madrid, all’eterna Babele delle lingue, delle sensibilità e degli interessi nazionali divergenti.
Tanto che non è affatto chiaro se domani la riunione straordinaria a Bruxelles dei ministri Ue degli Interni riuscirà a trovare l’accordo per redistribuire 120mila richiedenti asilo e approvare per il futuro un sistema di quote obbligatorie e permanenti, come prevede il piano Juncker. Oppure se si limiterà ad annunciare la completa riallocazione dei primi 40mila, che già due mesi fa avrebbero dovuto trovare lasciare i campi di raccolta in Italia e Grecia.
L’odissea senza fine di chi fugge guerre, fame e persecuzioni da Medio Oriente e Nordafrica e la confusione mentale con cui l’Europa affronta la peggior emergenza umanitaria dal dopoguerra in fondo altro non sono che lo specchio impietoso di una doppia e irrisolta crisi di identità esistenziale, il punto di intersezione di due civiltà, una fallita l’altra disorientata, da sempre condannate dalla geografia a incontrarsi e scontrarsi.
Chi arriva ha sulle spalle il peso delle macerie della sua storia vicina e lontana, dell’appuntamento mancato con la modernizzazione politico-culturale prima che economica. Niente ha funzionato nel mondo arabo e dintorni: né il nazionalismo liberale dei primi del secolo scorso né il socialismo panarabo, né l’autoritarismo né l’islamismo più o meno moderato. Né il folle fanatismo dell’Isis. Dopo frustrazioni e sviluppo quasi sempre azzoppato, ora le guerre civili, la disarticolazione di Stati e società divorate da confitti etnici, genocidi e persecuzioni religiose: tragico bagno di autolesionismo collettivo che rende buio il futuro.
Naturalmente l’Europa che accoglie è il paradiso sognato di pace e di benessere. Nemmeno l’Europa però è un porto aperto e sicuro, la casa dove con calma ricostruirsi una vita. Prima di tutto perché, in fatto di politica di asilo, resta poco più di un’espressione geografica, dove la modifica della convenzione di Dublino passa per l’unanimità e dove persino la ripartizione obbligatoria di un numero di rifugiati pari allo 0,032% della sua popolazione non riesce a trovare il consenso generale (anche se qui si decide a maggioranza).
E poi, soprattutto, perchè oggi l’Europa dei 28 non sa bene che cosa fare di se stessa, della propria democrazia, dei propri valori, delle proprie confuse e non condivise ambizioni. I partiti tradizionali perdono seguito, le elezioni diventano la roulette vincente di formazioni anti-sistema, nazionaliste, populiste, estremiste. Diffusi sentimenti anti-capitalisti e/o ciecamente pacifisti si intrecciano con laicismo e tolleranza a senso unico, raramente binario come logica vorrebbe in società che si preparano a farsi multiculturali e multietniche.
La relativizzazione di valori e identità disarma gli europei, li trasforma in interlocutori deboli proprio quando devono governare il radicale cambiamento strutturale del proprio modello di società. Di più. I Paesi dell’Unione non sono ancora riusciti a metabolizzazione le loro profonde contraddizioni interne che derivano da storie, radici, sensibilità, livelli di sviluppo e di ricchezza nazionali molto diversi. Con l’economia che cresce poco, gli occupati anche, welfare e sicurezze sociali in discesa.
Risultato, integrare un rifugiato a Berlino o a Stoccolma non è come farlo a Budapest, Varsavia o Atene. Lo sanno per primi i profughi che puntano tutti a Nord. La Germania di Angela Merkel ha aperto loro le braccia, il 66% dei tedeschi è con lei ma non tutto il suo partito. Le resistenze a Est restano forti ma anche dai Paesi scandinavi arrivano le riserve sulle quote obbligatorie permanenti.
La solidarietà esplosa in queste ore nelle sue strade è un bello spettacolo che in Europa non si vedeva da anni. Ma potrebbe durare poco: consumata la commozione, i tanti costi dell’accoglienza potrebbero diventare la nuova discriminante delle emozioni collettive. E dei risultati elettorali. Per questo costruire una politica comune dell’asilo e dell’immigrazione oggi appare un’impresa ancora più difficile di quella, tuttora tormentata, che ha dato vita all’euro.