domenica 20 settembre 2015

il manifesto 20.9.15
La grande corsa della sinistra
Campidoglio . L’alleanza a Roma tra Pd e vendoliani, in appoggio al sindaco «marziano» come possibile sfida ai poteri consolidati e alle filiere di comando, naufragata sotto i colpi di Mafia capitale e con il «golpe di luglio» di Renzi
di Eleonora Martini


La «grande corsa» è cominciata subito — ed è finita con il «golpe di luglio» — dietro a quel sindaco che evoca l’immagine di un ragazzino prodigio, «distante e austero» come un «marziano». Estraneo però non solo a un partito disastrato dalle logiche di potere ma anche a quel popolo tanto sacralizzato dai cultori del populismo senza il quale però un primo cittadino muore di solitudine. E finisce per costruire un muro di incomprensione.
Una corsa a ostacoli concepita all’origine, due anni fa, come una staffetta — il cui testimone da portare a traguardo era un’alleanza dalla «forte valenza costituente», quella tra Sel e il Pd alla guida di Roma, un «Centrosinistra anomalo, forse sgangherato, sicuramente coraggioso», capace di sfidare «poteri consolidati e filiere di comando» — ma naufragata nell’incapacità di costruire «empowerment collettivo» e sotto i colpi sempre più assestati e raffinati del governo nazionale di Renzi e Alfano, di una parte del Partito democratico e della stampa di regime. Lunghi assalti che alla fine hanno raggiunto l’obiettivo, creando «le condizioni per l’esito moderato dell’esperienza di governo» della Capitale.
Gianluca Peciola, capogruppo dei consiglieri capitolini di Sinistra ecologia e libertà, li ha vissuti e li racconta così, questi due anni di giunta Marino, in un instant-book che ha a tratti il ritmo del noir. «Il sindaco Marino e la grande corsa» (p.103, 12 euro Iacobellieditore) rimette in fila gli eventi dalle elezioni del giugno 2013 a fine luglio 2015 per ricostruire il senso della breve esperienza della sinistra al governo della Capitale, raccontando, in prima persona ma con lo sguardo collegiale del gruppo di Sel e del vicesindaco Luigi Nieri, un’“avventura” vissuta con passione, malgrado le contraddizioni, gli assoli e le fughe in avanti del chirurgo dem.
Nella convinzione che quella coalizione «strategica», che corre però fin da subito sul filo del rasoio, verificata ogni volta sul merito delle questioni, potesse aprire uno spazio politico per un «radicale stravolgimento dell’agenda del Centrosinistra degli ultimi venti anni». Convinzione consolidata dalle prime mosse della nuova amministrazione: la chiusura della mega discarica di Malagrotta, la pedonalizzazione dei Fori imperiali, la delibera per la valorizzazione dell’agro romano, la lettera al premier Letta per chiedere il blocco degli sfratti, l’obiettivo di rinunciare alla logica emergenziale di alcuni problemi strutturali della città, quali appunto la mancanza di alloggi popolari.
Non tarda però, il candidato ideale scelto per vincere una partita talmente impossibile che perfino Nicola Zingaretti ci aveva rinunciato (parola di Walter Tocci), a deludere le aspettative dei grandi burattinai dem locali che lo avevano voluto e che ben presto trasformano l’«outsider moralizzatore» in «inefficiente». Poi un bel giorno «Roma si sveglia mafiosa» sotto scacco di quel “mondo di mezzo” di cui è re l’ex Nar Massimo Carminati, boss della destra criminale che negli ultimi anni si è ripresa parte della capitale e che però «scompare», con tutto il marcio della sua area politica, — fa notare Peciola — nel giro di pochi giorni dalle cronache di quegli stessi organi d’informazione che hanno costruito il caso della Panda di Marino o che D’Alema recentemente ha accusato di diffondere falsità per conto del premier/segretario.
«La macchina amministrativa va in panne», tra «assessori solisti e gelosi di risultati e prerogative» e «consiglieri confusi e impauriti dal clima creato in seguito all’inchiesta». Il consiglio comunale, già in debito di autonomia e troppo asservito alle logiche correntizie, perde influenza politica sul governo della città. Gli stessi consiglieri di Sel — è il bilancio di Peciola — mentre combattevano per sostenere «quelle buone prassi collettive che arricchivano lo scenario sociale, culturale e politico della città», a volte si ritrovavano «impotenti di fronte all’aggressione burocratica di alcuni componenti della giunta». Anche il rapporto di Luigi Nieri con il suo stesso partito arriva a logoramento, il che non aiuta il vicesindaco che, stremato dagli attacchi della stampa, finirà poi per rassegnare le dimissioni.
Marino è in difficoltà ma, appoggiato dal commissario dem Matteo Orfini, «resiste», perfino a quello che il capogruppo Sel chiama il «proclama Alexander» lanciato da “Renzi 2″ a Porta a Porta per distogliere l’attenzione dalla sconfitta del Pd nei ballottaggi di Venezia, Arezzo, Nuoro, Matera, Fermo ed Enna. Barcolla però fortemente davanti ai cordoni della borsa che si serrano, ai vincoli del Mef, ai criteri rigidissimi imposti dal Salva Roma, all’austerity di stampo europeo che il governo nazionale scarica sugli enti locali e in particolare sulla Capitale per «inibire l’autonomia decisionale in merito alle politiche di redistribuzione della spesa pubblica».
Una tattica complessa, quella del premier/segretario, per delegittimare – sostiene il consigliere di Sel — l’alleanza tra il sindaco che «nella sua sregolatezza si è sempre sottratto al meccanismo delle larghe intese» e il partito che è all’opposizione del governo bipartisan. Così, quando il terreno è sufficientemente pronto, con la relazione del prefetto Gabrielli che funge da carota e da bastone, il premier scocca l’ultimo affondo. E Marino cede. Ma ci mette anche del suo, rifiutando la proposta di Sel di scegliere come nuovo vicesindaco Francesco Forgione, Prc, ex presidente della commissione nazionale antimafia. Peciola lo chiama il «golpe di luglio», il commissariamento politico della giunta che così torna nei ranghi più congeniali al Pd renziano.
È la fine di un’esperienza unica, in questi ultimi anni, uccisa dalla nascita del Partito della nazione, quello che, come ha detto recentemente Nichi Vendola, «ha costruito un percorso antitetico rispetto all’Ulivo di Prodi o al tentativo di “Italia bene comune” di Bersani».
Perciò il libro lascia aperti interrogativi di scottante attualità, per la sinistra italiana. A cominciare da quale e su quali basi si possa costruire un’alleanza con questo Pd nelle prossime amministrative del 2016 («Non è il nostro destino, ma è la nostra possibilità», afferma Vendola). Un partito che si è completamente trasformato dai tempi dell’elezione di Pisapia a Milano, Doria a Genova e Zedda a Cagliari. E a Roma stenta a rimettersi in piedi, fermo com’è attualmente a non più di tremila tesserati, forse anche perché la cura antibiotica sui circoli marci di Barca e Orfini (che a dicembre dovrebbe concludere il suo mandato commissariale) si è fermata a metà strada.
Anche Sel però ha i suoi guai, con defezioni sempre più consistenti verso il «partito contenitore», come lo chiama Stefano Fassina che lavora ora per un nuovo polo a sinistra. Nella Capitale, se il «marziano» ora normalizzato resisterà, a governo piacendo, il problema si presenterà nel 2018. La strada è lunga, per un tempo relativamente breve. La grande corsa, in realtà, è appena cominciata.