domenica 20 settembre 2015

Corriere 20.9.15
Tutti migranti in fuga. Ma con qualche differenza
risponde Sergio Romano


Sul problema degli immigrati è innegabile che il comportamento dell’Ue non sia affrontato con un’azione comune per tutti i 28 Stati che ne fanno parte. Quello che si stenta a comprendere poi è il comportamento del governo ungherese. È davvero triste assistere alla costruzione del muro di filo spinato da parte di una nazione che, a suo tempo, vicenda dell’invasione sovietica del 1956, aveva visto le porte aperte dalle nazioni confinanti con una solidarietà senza pari. Che la memoria storica sia carente o assente negli Stati è una costante, ma, sinceramente, le decisioni ungheresi lasciano esterrefatti. Mi piacerebbe un suo commento. Giovanni Attinà

Caro Attinà,
Vi sono muri costruiti per impedire ai propri cittadini di trovare altrove un nuova patria dove vivere e lavorare, come il muro di Berlino. E vi sono muri che impediscono agli altri di entrare nel proprio Paese, come quello voluto da Viktor Orbán in Ungheria e quello costruito dagli Stati Uniti alla frontiera con il Messico sul Rio Grande. Le due categorie sono entrambe, per diverse ragioni, condannabili, ma commetteremmo un errore se non facessimo qualche distinzione. La Repubblica democratica tedesca era un regime illiberale dove i cittadini erano privati di diritti fondamentali. Gli Stati Uniti sono un società aperta dove gli immigrati irregolari (ve ne sono circa 10 milioni) riescono pur sempre a trovare un lavoro. L’Ungheria è una democrazia autoritaria, simile alla Russia e alla Turchia.
Ho fatto questa premessa perché i confronti non sono sempre calzanti e vanno maneggiati con prudenza. La fuga degli ungheresi da Budapest dopo la rivoluzione del 1956 fu un’altra cosa. Gli insorti avevano manifestato e combattuto nelle strade contro l’Armata Rossa e avevano giustiziato sommariamente parecchi membri della polizia segreta ungherese. Se fossero rimasti in patria, avrebbero corso il rischio di finire di fronte a un plotone di esecuzione o, nella migliore delle ipotesi, in un campo di concentramento siberiano. Gli austriaci aprirono le loro frontiere perché sapevano quale sorte sarebbe toccata ai fuggiaschi se fossero stati respinti. Eravamo in una delle fasi più pericolose della Guerra fredda e l’accoglienza riservata ai profughi servì anche a compensare nelle coscienze europee la politica prudente dei governi occidentali.
Le stesse considerazioni valgono anche per un altro episodio evocato negli stessi giorni a proposito della Danimarca, dove il governo ha adottato verso i profughi diretti in Svezia una linea non troppo diversa da quella del governo ungherese. È stato ricordato che nell’ottobre del 1943 i pescatori danesi e gruppi di resistenti erano riusciti a trasportare 7000 ebrei sulle coste svedesi. È possibile che un popolo capace di tanta generosità chiuda le porte della sua casa a persone che fuggono, in buona parte, da un Paese in guerra? La notizia ha sorpreso chi aveva dimenticato l’esistenza in Danimarca di un Partito popolare che ha in materia di emigrazione una politica simile a quella del Fronte nazionale francese e del Partito indipendentista britannico. Ha vinto le elezioni europee con il 26,6% dei voti ed è ora il secondo partito di governo con il 21,1%. Ma anche in questa vicenda converrà ricordare che tra i settemila ebrei trasportati in Svezia e i profughi provenienti dalla Siria esiste pur sempre una differenza. I primi furono letteralmente strappati alla morte; i secondi cercano una vita migliore.