martedì 15 settembre 2015

il manifesto 15.9.15
La minoranza Pd porta la Carta al tavolino
Riforme. Sul senato elettivo le correnti non renziane che tuonavano contro l’invadenza del governo sulla revisione costituzionale ora trattano per una via d’uscita
E Renzi lancia un avvertimento a Grasso: se si riapre tutto è un problema suo
di Andrea Fabozzi


La riforma costituzionale che non doveva ridursi a un affare di governo, secondo quando chiedeva la minoranza Pd (giustamente, e non da sola), si è ridotta a un affare tra il governo e la minoranza Pd. Le delegate delle due parrocchie maggiori — Lo Moro bersaniana e Pollastrini cuperliana — si sono accomodate anche ieri (e torneranno oggi) al tavolo con ministra e sottosegretario alle riforme, per poi serenamente illustrare gli sviluppi: «Sulla modifiche all’articolo 1 abbiamo fatto passi avanti, mentre sull’articolo 2 restano ancora delle distanze. Stiamo lavorando seriamente. Se son rose fioriranno» (il sottosegretario Pizzetti), «Ora inizia la fase più delicata» (Lo Moro), «Sono ore febbrili» (Pollastrini). A quel tavolo si monta e si smonta il prossimo senato della Repubblica, la sua composizione e le sue funzioni vengono decise a porte chiuse. Ormai la gara tra le minoranze dem è a chi dirà prima di sì al presidente del Consiglio, in questa classica sfida tra correnti in cui l’obiettivo non è il merito dell’accordo ma la trattativa stessa. Tant’è che il risultato, la «mediazione», che avrà la prevedibile forma di un rinvio della questione dell’elegibilità dei senatori (attraverso la legge ordinaria), verrà speso da Renzi soprattutto nell’altro «forno», quello di destra, dove i senatori che vogliono salvare il governo non chiedono che uno straccio di argomento per uscire dall’aula e far passare anche questa lettura della nuova Costituzione.
Alta tecnica costituzionale, nella quale la minoranza del Pd si è totalmente accomodata. Lasciando al governo l’imbarazzo di dover ricordare che «non siamo un monocolore Pd, il testo degli emendamenti va condiviso con gli alleati e con le forze che hanno appoggiato le riforme in prima lettura al senato». Perché ovviamente più diminuisce il dissenso nel partito del premier (sulla carta trenta decisivi senatori, nelle previsioni meno della metà), più aumenta il malumore dei centristi di governo che hanno scavato la trincea in un territorio indifendibile (la revisione della appena approvata legge elettorale) e rischiano di perdere per strada un terzo del gruppo senatoriale. E appena più in là c’è Forza Italia che fa fatica a contenere la voglia di accordo dentro i retroscena che raccontano un Berlusconi inflessibile, avendo realizzato che l’inevitabile aiuto a Renzi sarebbe più utile concederlo alla luce del sole.
Per il governo la soluzione più semplice sarebbe eliminare il problema con una forzatura regolamentare, com’è stato a ogni passaggio del disegno di legge di revisione costituzionale. In questo caso si vorrebbe che il senato non tornasse a votare sull’articolo 2, quando la maggioranza dei costituzionalisti ascoltati in commissione ha chiarito che l’articolo 138 della Costituzione lascia aperta fino all’ultimo la via per ripensamenti e riflessioni. Il presidente del senato potrebbe imboccare questa strada, aprendo la porta agli emendamenti per il senato elettivo che possono contare (sempre sulla carta) sulla maggioranza assoluta dei senatori. Oppure limitare il dibattito agli emendamenti collegati alla (piccola) modifica che ha introdotto la camera all’articolo 2, ma anche in questo caso il campo delle proposte potrebbe espandersi. Pietro Grasso ripete da prima dell’estate che serve un accordo politico per uscire dal tunnel: nemine contradicente qualsiasi decisione sul regolamento è legittima. Renzi però quell’accordo non lo ha e da mesi butta la palla nel campo del presidente del senato; ancora ieri sera è andato in tv a raccontare così la storia: «Come si possa cambiare idea per la terza volta è un problema che riguarda il presidente del senato».
«Indietro non si torna», dichiara al mattino e alla sera la guardia scelta renziana Luca Lotti, la rappresentazione della riscrittura di un terzo della Costituzione come una sfida del presidente del Consiglio contro tutti ha ormai fatto perdere di vista il merito della questione. La legge oltretutto dovrà comunque tornare alla camera per correzioni importanti e, nel giro di qualche mese, avrà bisogno della maggioranza assoluta per essere portata al referendum confermativo. «Siamo tutti d’accordo che dobbiamo chiudere entro il 15 ottobre, mi pare già un passo avanti», ha detto ieri la ministra Boschi. Ma oltre il 15 ottobre non si può andare, visto che dal senato parte la legge di stabilità.