il manifesto 11.9.15
I soldati di Mosca costringeranno gli Usa a dialogare
Siria. I fronti pro e anti-Damasco si riposizionano secondo i nuovi equilibri di forza. Che le truppe russe siano o meno dispiegate, Putin manda un messaggio chiaro: è il tempo del compromesso. L'Europa si spacca
di Chiara Cruciati
Più che un braccio di ferro sul tavolo siriano si gioca una partita a scacchi, fatta di indiscrezioni, smentite, velate minacce. Ma l’improvvisa escalation della tensione militare potrebbe segnare il destino di un paese disastrato e di un presidente, Assad, che rientra dalla finestra. Un destino dal vago sapore novecentesco: Occidente e Russia gestiscono la partita, affiancati dai rispettivi alleati regionali.
Dopo giorni di accuse da parte degli Stati uniti, secondo cui Mosca starebbe costruendo una base aerea a Latakia (in aggiunta a quella già esistente di Tartous, la sola russa nel Mediterraneo) e avrebbe inviato unità da combattimento, ieri fonti libanesi hanno detto alla Reuters che, sì, i russi partecipano già alle operazioni militari e apriranno due basi nel paese. Notizie che fanno tremare i polsi al presidente Obama e al segretario di Stato Kerry, che continua a chiamare il Cremlino per chiedere spiegazioni. Che puntualmente non arrivano: Mosca insiste che i propri consiglieri militari non imbracciano le armi. Anche Hezbollah è intervenuto: Abu Zalem, responsabile militare, ha ribadito che si tratta solo di esperti perché «in Siria non abbiamo bisogno di truppe, ma di strateghi».
Quello a cui assistiamo è una fase preparatoria: i due fronti, il pro e l’anti-Assad, consapevoli che la situazione è ben diversa – in termini di equilibri di forza – da quella del 2011, si riposizionano in vista dello scontro. Che non sarà bellico, guerreggiato. Improbabile che Obama, in scadenza di mandato, rivoluzioni la sua politica del “nessun stivale sul terreno”. Com’è improbabile che il suo successore, che sia democratico o repubblicano, opti per inviare i marines con un’opinione pubblica contraria a ripetere disastrose esperienze come quella irachena o afgana.
A cosa serviranno dunque i soldati di Putin, che siano dispiegati davvero oppure no? A costringere gli Usa al compromesso, con un messaggio chiaro: senza il sì della Russia e la tutela dei suoi interessi nessuna transizione politica potrà reggere. Il messaggio giungerà con la guerra a Isis, al Nusra e gruppi satellite: i jet di Mosca colpiranno nelle zone che la coalizione – per “coerenza” – non colpisce, dove ufficialmente a governare è Assad: Latakia, Palmira, Homs, Damasco.
Frenata l’avanzata del conflitto, si aprirebbero le porte del negoziato tra l’attuale governo e le opposizioni moderate per la creazione di un esecutivo di unità. E Assad? Forse alla fine sarà costretto a farsi da parte, ma solo se sostituito da un diretto rappresentante che rassicuri l’asse sciita Hezbollah-Iran, alleato russo, e non metta in pericolo l’influenza di Teheran nel paese. Gli Stati uniti e la lunga schiera di alleati, dall’Europa al Golfo, salverebbero la faccia facendosi scudo dietro la presenza di quelle evanescenti opposizioni considerate uniche rappresentanti del popolo siriano.
Le prime fratture, le prime defezioni, nel granitico fronte occidentale si vedono già: l’Europa, mai credibile nella gestione della crisi siriana, si sta spaccando tra chi vuole bombardamenti a tappeto e chi ritiene necessario aprire ad Assad. Mentre il segretario della Nato Stotenberg si dice preoccupato della crescente attività militare russa in Siria e la Francia ribadisce che allontanerà una soluzione politica, la stessa Gran Bretagna (dopo aver annunciato il via alle operazioni militari) ieri ammorbidava le posizioni. «Non stiamo dicendo che Assad debba andarsene il primo gionro – ha detto il segretario agli Esteri Hammond – Sono pronto a discutere la posizione russa e iraniana: dobbiamo muoverci verso le elezioni e allora saranno i siriani a decidere se Assad dovrà restare presidente». Per cui, ha aggiunto, che resti per sei mesi come mezzo di transizione, poi si vedrà (proposta rigettata in un’intervista al The Guardian da Damasco che ripete che le elezioni di un anno fa si sono chiuse con la vittoria dell’attuale presidente).
Musica simile da Roma, Berlino, Madrid e Vienna: il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Garcia Margallo ha chiaramente indicato nei «negoziati con Assad» la soluzione al conflitto (e quindi, pensano le cancellerie europee, all’emergenza rifugiati), mentre l’austriaco Kurz parla di «approccio pragmatico che coinvolga Assad».
L’Iran, da parte sua, forte dell’accordo sul nucleare e della nuova veste di mediatore regionale, non ha mai nascosto l’intenzione di lanciare un dialogo serio, mettendo sul tavolo Onu piani di pace a cui partecipino le opposizioni. Resta il Golfo, oggi quasi silente sulla questione siriana, risucchiato dalla terribile operazione per il controllo dello Yemen. Il grande finanziatore della guerra civile siriana e dell’avanzata islamista andrà ridimensionato attraverso reali controlli sul flusso di denaro fagogitato dalle casse islamiste.