venerdì 11 settembre 2015

La Stampa 11.9.15
La rischiosa partita di Putin
di Anna Zafesova


«Convogli umanitari» accompagnati da uomini in uniforme e carichi di armi, militari russi che postano su Facebook i selfie scattati in Medio Oriente, segnalazioni di spostamenti di truppe e armamenti: i sintomi della «guerra ibrida» già vista un anno fa nell’Est dell’Ucraina ora si manifestano in Siria. Con una differenza: stavolta Mosca non nega la sua presenza militare, insistendo però che si tratta solo di «consulenza» e non di coinvolgimento bellico diretto. Affermazioni probabilmente non molto lontane dalla verità: la «guerra ibrida», a molti sembrata una novità nel Donbass, è in realtà una vecchia e consolidata tattica del Cremlino, collaudata già in Corea e poi applicata in tutte le «guerre per procura», dal Vietnam al Mozambico. Consiglieri militari, armamenti e qualche intervento diretto di reparti scelti in uniforme dell’esercito locale: una ricetta classica, il massimo del resto che Mosca può concedersi.
La novità è che Vladimir Putin ha lanciato una rischiosa partita in proprio, inserendosi come «terza forza» senza aspettare la formazione della coalizione internazionale anti-Isis, auspicata da tutte le parti, e invocata solo pochi giorni fa anche dal presidente russo. Il ministro degli Esteri Serghey Lavrov ha però fatto capire che i russi hanno in mente una compagine piuttosto diversa di questo fronte, e Putin ha lavorato per tutta l’estate per un’alleanza militare di siriani, iracheni, egiziani e curdi, con qualche apertura anche ai Paesi arabi del Golfo, e molto probabilmente l’appoggio dell’Iran, forte dell’accordo sul nucleare che Mosca ha contribuito a raggiungere riconquistandosi un ruolo di primo piano nella diplomazia internazionale. E Putin è disposto a fare il bis con Damasco: qualche giorno fa si è fatto portavoce della disponibilità del suo alleato siriano a condividere parte del governo con l’opposizione, forse nella speranza che di fronte all’avanzata dell’Isis l’Occidente cambi idea e accetti Assad come male minore.
Dall’inizio della crisi siriana, per l’Occidente Assad era il problema, per il Cremlino la soluzione, e la diplomazia russa è sempre stata finalizzata alla conservazione del suo regime, ultimo alleato storico di Mosca nell’area. Anche oggi il portavoce di Putin sottolinea che gli aiuti militari sono diretti all’esercito siriano come «unica forza in grado di contrastare l’Isis». Perché Putin è disposto ad allearsi con l’Occidente nella battaglia contro la jihad, della quale si è sempre dichiarato il primo protagonista già dal 1999 con la Cecenia, e che ha prodotto anche l’alleanza con gli Usa di George W. Bush dopo le Due Torri. Ma si oppone a una coalizione in nome del «regime change». La disastrosa situazione di quel che resta del regime siriano fa presupporre ad alcuni analisti russi che i movimenti militari a Latakia e Tartus servano essenzialmente ad aiutare Assad a creare una roccaforte alawita in Siria se il resto del Paese cadesse in mano agli islamisti, o nel peggiore dei casi a garantire una via di fuga al presidente. Scontentando così sia l’Isis che gli Usa.