Corriere 9.9.15
Gli enigmi di Bellocchio
Un Seicento da Inquisizione, corrotti e vampiri di oggi
Il regista sorprende con un ironico viaggio nel tempo
di Paolo Mereghetti
D a una parte il Seicento cupo e minaccioso dell’Inquisizione, dall’altra l’oggi slabbrato e approssimativo della corruzione; di là la memoria della manzoniana monaca di Monza, di qua quella dell’Ispettore generale di Gogol’, legati a tenere insieme un film inaspettato e insolito come questo Sangue del mio sangue, che riporta in concorso al Lido Marco Bellocchio, accolto da 8 minuti di applausi. La differenza con le opere passate è evidente: non c’è la complessità e anche la necessità intellettuale di film come L’ora di religione, Vincere o Bella addormentata. Manca anche la lucidità e la rabbia (politica) così tipica del regista piacentino. In compenso c’è una leggerezza e un’ironia, una scorrevolezza e un’originalità che rinfrancano e che, a confronto di tante opere viste qui al Lido, fanno l’effetto di una boccata ristoratrice di aria fresca.
Per aiutare lo spettatore a collocare meglio l’opera, diciamo subito che all’origine di questo film c’è la scuola estiva che il regista tiene a Bobbio — dove tutto il film è ambientato — e che è già stata all’origine di Sorelle (2006) e poi di Sorelle Mai (2009), progetti nati per essere girati con gli allievi e poi rimasticati e rigenerati da Bellocchio stesso. E proprio Mai — Federico — si chiama il protagonista di entrambi i segmenti del film, affidati al figlio del regista Pier Giorgio.
Nel primo è il fratello somigliantissimo a un prelato suicidatosi per amore e quindi destinato a essere seppellito in terra sconsacrata. A meno che la «responsabile» del suicidio, la monaca Benedetta (Lidiya Liberman) che avrebbe fatto perdere la testa al proprio confessore non ammettesse un qualche patto col diavolo. Per questo Federico Mai è arrivato al convento e per questo assiste a tutte le prove cui viene sottoposta la donna, da cui però ogni volta esce vincitrice e ogni volta insinuandosi un po’ di più nel cuore di Federico.
Nel secondo segmento, Federico Mai è invece un sedicente ispettore della Regione incaricato da un miliardario russo (Ivan Franek) di acquistare le prigioni di Bobbio (che poi erano il convento dove si era svolto il calvario di Benedetta). Operazione che rischia di incrinare il misterioso potere che un vampiresco conte Basta (Roberto Herlitzka) esercita sulla città insieme a un gruppo di misteriosi accoliti in cui Bellocchio ha voluto ritrarre la quintessenza dell’immobilismo e della reazionarietà della Dc degli anni d’oro.
Entrambe queste storie avranno un’evoluzione in qualche modo inaspettata, dove il Potere verrà messo in crisi dalla forza spontanea e naturale della Donna (e dove avrà un ruolo importante anche l’ultimogenita del regista, Elena), ma questa è la lettura più semplice e facile di un film che invece si regge soprattutto sulla capacità di scartare dal percorso rettilineo della storia per aprirsi improvvisamente verso altro. La sessualità repressa delle sorelle Perletti (che Alba Rohrwacher e Federica Fracassi rendono indimenticabili) nella prima parte, la follia affidata a Filippo Timi o la disperazione di una moglie forse vedova interpretata da una spiritata Patrizia Bettini nella seconda parte, sono tutti momenti che sorprendono lo spettatore perché aprono il racconto verso svolte inaspettate, capaci di cambiare all’improvviso il tono e l’atmosfera del film.
Ne esce così un viaggio insieme riconoscibile e nuovissimo, dove Bellocchio mescola ricordi personali (anche lui ha avuto un fratello suicida) e polemiche consolidate (la Chiesa, la Dc), ma anche un’ironia graffiante e una leggerezza narrativa che sanno sorprendere lo spettatore e gli regalano alcuni momenti di autentico piacere cinematografico.