Corriere 9.9.15
Il regista:
«Il mio inno alla libertà artistica nasconde un apologo sull’Italia moderna»
di Stefania Ulivi
VENEZIA Un «inno alla libertà» il suo ultimo film (già oggi nei cinema), un inno alla libertà, artistica e personale, quello che Marco Bellocchio intona presentandolo al Lido. In forma smagliante, sempre meno schiacciato dal peso del tempo: «A 75 anni o ci si ripiega in se stessi o si ha la reazione compulsiva di fare due film all’anno per esorcizzare la morte. Io cerco di divertirmi superando il rigore all’americana dove tutto deve corrispondere».
Un film che gli somiglia e tutto condensa: il potere, la religione, la fascinazione del femminile, il disincanto, il dolore. È «un apologo sull’Italia di oggi»: Bobbio, la sua piccola Cinecittà, è «il mondo intero, la globalizzazione ha cancellato l’isolamento in cui si viveva». Di se stesso dice: «Io sono un anarchico, un moderato, non mi vedo alle manifestazioni No Tav a tirare le pietre ma il potere mi dà fastidio». Anche quello non è più lo stesso. La furia priva di misericordia dell’istituzione religiosa seicentesca, il potere vampiresco democristiano del conte Herlitzka che dice «non siamo eterni» hanno lasciato spazio a un «vampirismo metaforico dell’Italia di oggi, dove c’è un Papa più a sinistra della sinistra. Anche se dirlo non fa di me un convertito». Nel film emerge potente altro. «La forza delle donne».
Dopo Bella addormentata disse: mai più a Venezia. «Vero, ma la gara non riguarda solo me». In sala, ad applaudire con più convinzione, il presidente emerito (e cinefilo) Napolitano.