Corriere 8.9.15
Bicameralismo
Se 36 anni non bastano ancora
di Paolo Mieli
Ha ragione il nostro Michele Ainis. Sarebbe stato preferibile chiudere quest’annosa questione della riforma istituzionale con un unico articolo: «Il Senato è abolito». Lo ha detto pochi giorni fa anche l’uomo più saggio della minoranza del Partito democratico, Pier Luigi Bersani. E, con lui, molti altri politici e commentatori intervenuti nel dibattito sulla — pressoché unanimemente — auspicata eliminazione del bicameralismo paritario. Ma nessuno si è limitato a proporre quelle quattro decisive parole. Ognuno di loro si è poi sentito in obbligo di aggiungere che «certo, si dovrebbe nel contempo cambiare questo, questo e questo». Senza rendersi conto probabilmente che così si ricomincerebbe daccapo.
Si ripete, in grande, quello che era già accaduto con le Province: l’unica soluzione apparve essere quella di abolirle sia pure in modo imperfetto, contando che eventuali aggiustamenti sarebbero venuti con il tempo. Stesso discorso vale oggi per la Camera alta. Anche la questione dell’elettività dei senatori a questo punto si presenta solo come un modo per riaprire il dossier, rimettere in discussione la legge elettorale e riportare in mare aperto la nave della riforma (nell’evidente speranza che affondi). Stefano Rodotà, che di questa trasformazione del Senato in qualcosa di simile al Bundesrat tedesco è stato fin dall’inizio un combattivo e coerente avversario, ha avuto l’onestà intellettuale di metterlo per iscritto: «Oggi la residua “battaglia” per tornare solo all’elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non accompagnata da altre modifiche».
«Residua», «solo», «poca cosa», «altre modifiche: tutto chiaro. E — per quel che riguarda la destra — il genere di approccio alla discussione lo si è capito a fine agosto allorché quel fantasioso leghista che è Roberto Calderoli ha promesso di ritirare i suoi cinquecentomila emendamenti se il ministro della Giustizia Andrea Orlando avesse trasmesso al presidente della Repubblica gli atti per un provvedimento di clemenza nei confronti del costruttore bergamasco Antonio Monella (quel Monella condannato nel 2006 per aver ucciso un diciannovenne albanese che gli stava rubando un Suv parcheggiato nel cortile della villa ad Arzago D’Adda). Non è questa la sede per soffermarci sul «caso Monella», però è evidente che la proposta di un così singolare baratto non può che essere considerata alla stregua di uno sberleffo.
È giunto il momento di ricordare che la discussione italiana sulla Grande Riforma (così la si chiamò fin da principio) iniziò qui da noi nel lontano 1979. A quei tempi Bersani aveva ventotto anni, il suo braccio destro, Roberto Speranza, nasceva in quell’anno. Da allora per trentasei lunghissimi anni si è parlato di eliminazione del bicameralismo alla luce del fatto che, nelle forme in cui è sopravvissuto nel nostro Paese, non esiste più quasi da nessun’altra parte del mondo occidentale. La seconda Camera non c’è in quindici (la maggioranza!) dei ventotto Paesi dell’Unione Europea. In otto dei rimanenti tredici (la maggioranza!), il Senato non è eletto direttamente dai cittadini. E i quattro che ancora seguono (parzialmente) il modello italiano — Spagna, Polonia, Romania e Repubblica Ceca — non offrono un modello istituzionale a cui sia, per così dire, obbligatorio fare riferimento.
Nel corso dei trentasei anni che intercorrono tra il 1979 e oggi ci siamo a tal punto affezionati al dibattito sulla Grande Riforma che, forse, è di questo tema di discussione che paventiamo la scomparsa, assai più che del Senato stesso. I Paesi che vogliono cambiare lo fanno in altri modi e con altri tempi. Ad esempio in Francia (il cui modello è indicato dai più come uno dei migliori d’Europa), Charles de Gaulle prese il potere il 1° giugno del 1958, riformò la Costituzione della Quarta Repubblica nel corso dell’estate e sottopose la modifica a referendum il 28 settembre di quello stesso anno. Il tutto in meno di quattro mesi. Poi de Gaulle passò ad occuparsi della guerra d’Algeria. E quando, nel 1962, chiuse quel problematico conflitto coloniale, fece in tempo a por mano ad una riforma della riforma di quattro anni prima, correggendone alcuni aspetti non irrilevanti tra cui l’elezione del capo dello Stato (che divenne diretta). Grazie a quelle modifiche, è bene ricordarlo, la Francia, prima in Europa, poté consentire l’ingresso dei comunisti in una coalizione di governo molti anni prima della caduta del muro di Berlino.
Ma nel ‘58 qui da noi l’intera sinistra trattò quelle modifiche costituzionali alla stregua di un golpe e persino il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat sostenne che non avrebbero potuto avere altro che un «esito fascista». Trascorse qualche decennio e quel modello divenne, come si è detto, il riferimento di buona parte della sinistra italiana. E Maurice Duverger, il politologo francese che nel ‘62 aveva fatto campagna elettorale a favore dell’approvazione della seconda riforma gaullista, fece in tempo nel 1989 ad essere candidato alle elezioni europee dal Pci pochi attimi prima che quel partito mandasse in soffitta le insegne con la falce e il martello.
Questo per dire che le Costituzioni non si cambiano mai una volta per tutte e che le modifiche se non funzionano possono essere a loro volta ulteriormente cambiate. Certo quei quattro mesi della Francia nel 1958 furono pochi. Ma trentasei anni, diciamocelo con franchezza, sono un periodo eccessivo. Tanto più che, come fu in Francia, il momento della parola definitiva sarà quello del referendum dove gli avversari della riforma avranno l’occasione di far valere le loro ragioni. Senza drammi.
Vale la pena di richiamare alla memoria che anche da noi c’è un precedente in tal senso: nel novembre del 2005 Silvio Berlusconi modificò sostanzialmente il nostro assetto costituzionale e nel giugno del 2006 un referendum bocciò quella modifica con il 61,3% dei voti. Giova ricordare (a Eugenio Scalfari che l’estate scorsa ha sollevato dubbi circa l’opportunità di alcune prese di posizione di Giorgio Napolitano a favore del completamento dell’iter di riforma costituzionale) che nel 2006 a capo della campagna abrogazionista si pose l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. E poté farlo senza che in alcun modo il suo successore Carlo Azeglio Ciampi — che dal Quirinale aveva vigilato sul varo della riforma berlusconiana, come oggi fa Sergio Mattarella — se ne dicesse turbato. Né allora, né in seguito .