sabato 5 settembre 2015

Corriere 5.9.15
Ezio Gallori
«Per fortuna Di Vittorio non li vede»
«Il sindacato è diventato una professione e ha raccolto le briciole dal tavolo della politica»
intervista di L. Sal.


ROMA «Io fo parte del mondo del lavoro, con la politica non mi sono mai intruppato. Ho 77 anni, ho fatto in tempo a conoscere Giuseppe Di Vittorio: poverello, mi sa che si rigira nella tomba a vedere quelli che ci sono oggi». Ezio Gallori — toscano di Terranuova Bracciolini — ha fatto sindacato per una vita. Iscritto alla Cgil che era ancora un ragazzino, nel 1990 fu espulso per aver fondato il Comu, il Coordinamento dei macchinisti uniti. Nel suo ultimo viaggio prima della pensione, alla stazione di Santa Maria Novella fu accolto da un mazzo di garofani rossi, dalle lacrime dei colleghi e dalla banda che suonava l’Internazionale. Praticamente un film di Ken Loach.
Gallori, anche lei ha potuto aumentare la sua pensione come hanno fatto tanti suoi colleghi?
«Per carità, non ho preso nemmeno un centesimo in più. Dopo 40 anni a fare su e giù sulle locomotive prendo 1.756 euro al mese. Ma va bene così».
Perché ci sono questi meccanismi che vi consentono di prendere un assegno più alto?
«Perché negli anni il sindacato è diventato non dico una casta ma una professione. Stipendi da paperoni e pensioni parecchio ingrassate. I sindacati si sono dimenticati di difendere i lavoratori e pensano solo a loro stessi».
Parla come il suo conterraneo, Matteo Renzi.
«Purtroppo queste cose fanno il suo gioco. Lui getta fango su tutto il sindacato: lo considera solo un intralcio, gli vanno bene solo quelli che dicono sempre sì. Ha torto, certo. Ma qualche colpa ce l’abbiamo pure noi. Anche se bisogna intendersi: all’inizio alcuni vantaggi un senso ce l’avevano».
Quindi è giusto per i sindacalisti avere una pensione più alta?
«No, ma le faccio un esempio. Negli anni 70 c’era la legge Mosca: consentiva di avere una pensione a quei sindacalisti che non avevano contributi. Si veniva da anni difficili, dove li andavi a trovare i contributi? Poi è diventata un trucco per tenere buono chi protestava troppo. La verità è che il sindacato è sempre stato troppo vicino alla politica, e ha raccolto le briciole dal suo tavolo».
Lei non ha mai avuto la tentazione di prenderne qualcuna?
«No, ma bisognava avere la schiena dritta. Ai tempi di Necci le Ferrovie fecero un accordo per mandare via 30 mila persone. Nello stesso tempo tutti i sindacalisti dell’azienda vennero promossi. Uno solo rifiutò, il Fasoli, un tipo di Verona».
Che fine ha fatto il Fasoli di Verona?
«Non lo so. Non credo che abbia fatto carriera. Ma adesso ne farebbe ancora meno».